Il peccato nella mentalità russa: dal cosacco di Lugansk a Dostoevskij

Cosa implica per i russi la parola грех, (grekh), peccato? Com’è concepito e rappresentato il peccato nella mentalità russa? Guardando all’etimologia, il termine è connesso con quelli dell’antica lingua russa гретъ, bruciore, съгряза sbaglio, confusione, e грязь sporcizia. Inizialmente nel vocabolario è introdotto in connessione alla religione, a significare deviazione, trasgressione rispetto al volere di Dio. Più in generale, implicherà la non osservanza delle regole.

“Il cosacco di Lugansk”, come si faceva chiamare il linguista e medico ucraino vissuto nell’Ottocento, Vladimir Ivanovich Dal’, oltre ad aver scritto opere riguardanti il folklore ucraino e il famoso “Dizionario esplicativo della grande e viva lingua russa“, ha indagato sulle credenze e le superstizioni del popolo russo. In particolare in un racconto, intitolato proprio “Grekh”, il Peccato, troviamo un Raskol’nikov timorato di Dio. Il protagonista, un contadino di nome Osip, si ritrova immerso nei debiti e senza lavoro, perciò non può pagare l’affitto. Chiede dunque un rinvio e nel frattempo pensa a come sbarcare il lunario. Incappa così nella tentazione di commettere un crimine, ovvero di rubare una valigia da una carrozza, nella speranza che sia piena di soldi, come aveva sentito raccontare da alcuni conoscenti. Chiaramente la valigia si rivela colma soltanto di stracci: oltre al danno, la beffa. Accade però che due suoi compagni, con cui aveva litigato, abbiano la bella idea di impossessarsi della valigia rubata e spartirsi il poco appetibile  bottino di abiti. Ancor più furbi, pensano bene di girare per la città indossandoli. La polizia li becca con la merce rubata e li mette in carcere. E qui viene il “bello”, il parallelo con Raskol’nikov. Cosa fa il nostro Osip? Sta zitto, facendo il suo interesse, e godendosi la libertà, dato che oltretutto i due compari se la sono cercata, rubandogli ciò che aveva rubato? No. Osip non può accettare che per colpa sua due persone siano state incolpate, dunque confessa il suo “peccato”.

Certo, Osip non è un Giobbe, che perseguitato dalla sfiga, inviatagli simpaticamente dal suo Dio, non perde mai la fede, non commette peccati e porge l’altra chiap…guancia, ma è un esempio della saggezza popolare contadina, del rispetto della religione, di cui è intriso il racconto di Dal’. Dio è la guida, il metro di misura delle azioni umane, menzionato di continuo. Tutti possono incappare in una tentazione, perché le disgrazie nel mondo spesso illudono che dietro ad un “peccato” stia la ricchezza, la soluzione, il piacere. L’importante poi è riconoscerlo e redimersi. Di qui la solita domanda morale da un milione di dollari: se è Dio ad aver creato il mondo e a proteggere l’uomo, perché gli invia la sofferenza, la malattia, la morte? Ognuno cerca di sviare il paradosso in maniera diversa. Le soluzioni sono generalmente tre: o Dio è sadico (l’idea del grande esperimento di cui noi siamo le cavie ha comunque un suo perché), o Dio è incomprensibile (troppo semplice lavarsene così le mani!) o il potere di Dio è limitato (ha creato qualcosa che gli è sfuggito di mano, come i robot di Asimov). La più raffinata e ottimistica, che richiama il punto 3, è quella di Leibniz, per cui il mondo in cui viviamo è una sottile ed intricata combinazione di incastri di monadi, voluti da Dio, ma su cui lui ha un controllo limitato dalla stessa natura delle monadi (quindi non è un creatore in senso assoluto, ma un “demiurgo 2.0”). State tranquilli, dice Leibniz, perché ad ogni modo, questo è il migliore dei mondi possibili (chissà gli altri!).

Confrontando il racconto di Dal’ con Delitto e castigo (ok, è come confrontare il quarzo con il diamante, ma anche il quarzo ha il suo valore) ci sono in effetti parecchie analogie: un “delitto” commesso dal protagonista con la convinzione che porti qualcosa di positivo, la confessione (quella Raskol’nikov non è certo una confessione spontanea, ma in un certo senso, come tanti killers, voleva essere scoperto), la possibile redenzione proprio attraverso di essa e la vita religiosa (rappresentata dal personaggio di Son’ya, che ama Raskol’nikov e gli indica la strada della liberazione attraverso la sofferenza e l’accettazione del castigo). Eppure, stiamo parlando del giorno e della notte. Non voglio certo insinuare ingenuamente che Dostoevskij non sia tanto credente quanto vuole far credere, né che Delitto e Castigo non sia pregno di connotazioni morali di tipo religioso. Eppure, in quel famoso discorso degli “uomini straordinari” sta la chiave del romanzo. Proprio il momento in cui Raskol’nikov giustifica il delitto, a condizione che porti a qualcosa di straordinariamente grande, è il perno di tutto il romanzo e la concezione filosofica di Dostoevskij. Il fatto è che il discorso sugli uomini straordinari è di per sé straordinario. Quando un discorso è tanto sublime, tutto ciò che viene dopo non può cancellarlo. Si può buttare acqua e fuoco sulle parole di Raskol’nikov. Lo si può far confessare il delitto, gli si può infliggere il castigo, affiancarlo ad una pia donna che lo porterà sulla retta via e farlo diventare Maria Goretti, ma Raskol’nikov resta sempre quel geniale figlio di …. che ha detto (e come l’ha detto! E’ proprio nella forma, nella bellezza letteraria il segreto della potenza di un concetto senz’altro già sentito e applicato nella storia dagli “uomini straordinari”) che se ammazzo qualcuno per portare avanti un’idea che cambia il mondo, sono legittimato. Chiaramente spesso ad ogni delitto segue un castigo: anche i criminali impuniti, se hanno un briciolo di coscienza, l’avranno perennemente guastata dal rimorso o dal terrore d’essere scoperti. Ovvio che nei 10 comandamenti c’è qualcosa di condivisibile anche dagli atei, perché sono prima di tutto dei precetti di quieto vivere e convivenza civile ma, come canta De Andrè nel capolavoro “Il testamento di Tito“, ci sono sempre delle eccezioni. “Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone”; “non desiderare la donna degli altri, non desiderarne la sposa; ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi che hanno una donna e qualcosa”. E’ il dogma ad essere errato di per sé in quanto assoluto, non chi lo infrange. E allora la chiave di tutto è proprio in quell’eccezione. In quella legittimazione del peccato. E’ quella ad evidenziare la contraddizione alla base della morale cristiana, della teoria creazionistica. L’uomo crea le sue leggi, crea il suo Dio-padre-padrone, ma poi si incastra in un circolo vizioso per cui non sa spiegare ciò che ha postulato, né l’esistenza del Male, e in cui l’assoluto non è affatto salvezza, ma condanna, perché qualunque legge è suscettibile di errore, di eccezione. C’è sempre qualcosa che sfugge. Solo un genio come Dostoevskij poteva evidenziare con tanta maestria lessicale, filosofica e letteraria.

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F.M. Dostoevskij, ritratto da Perov

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V.I. Dal’, ritratto da Perov

2 Risposte a “Il peccato nella mentalità russa: dal cosacco di Lugansk a Dostoevskij”

  1. a mio avviso come il discorso sugli uomini straordinari, c’è il discorso di Versilov sugli atei nell’Adolescente. solo Dosotoevskij riesce a far vivere l’antitesi con così incredibile forza e con così tanto coraggio. perchè è chiaro che se la metti giù con tutta quella passione, l’antitesi rischia di divenire tesi..eppure questo non succede mai… non finirà mai di entusiasmarmi

    1. Esattamente, oppure il dialogo di Kirillov ne “I Demoni” sul fatto che l’uomo è Dio e quindi come espressione massima della sua grandezza deve suicidarsi…non è tanto l’originalità delle teorie in sé, in certi casi, ma appunto il modo in cui le fa pronunciare ai personaggi, la passione che hanno, come dici tu, che lascia sempre il lettore con il dubbio che l’antitesi sia più forte della tesi. E’ solo un dubbio, chiaramente. Solo un “demone”…

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