Gli edifici di Klyukin e di Las Vegas. L’utopia concreta

Avrete sentito parlare dell’imprenditore Vasilij Klyukin e dei suoi visionari progetti architettonici. La nota casa editrice Skira ha pubblicato recentemente un volume chiamato “Designing legends“, contenente oltre cinquanta suoi progetti di edifici, accompagnati da pensieri dell’autore. Klyukin, moscovita trapiantato a Monaco, ha immaginato grattacieli dalle forme ardite e simboliche: un gigantesco edificio a forma di Nike di Samotracia, due torri che si toccano- sulla scia delle (furono) Twin Towers-, un caffè a forma di labbra di Marylin Monroe, e così via. I progetti ad oggi restano irrealizzati per mancanza di fondi o per irrealizzabilità pratica. In passato l’idea, nell’arte, raramente non era accompagnata dalla sua realizzazione. La tecnica, la materia si associava al pensiero dando vita ad opere tangibili. A poco a poco, l’Idea ha fatto talmente tanta strada, che oggi è possibile essere artisti “soltanto” con grandi idee. A braccetto con l’idea, dunque, riprende vigore l’utopia.

Eppure i “sogni” di Klyukin potrebbero diventare reali. Inutile dire che c’è una sola città in cui ci si immagina la costruzione di simili grattaceli iconici. Ha un nome che in spagnolo significa qualcosa come “i prati”, ma che di prati ne ha ben pochi: Las Vegas. Se a Vegas chiedete ad un taxista: “sa dove si trova un pub inglese per vedersi una partita?” lui vi guarderà allibito, poi farà spallucce e vi risponderà soltanto: “you’re in Vegas” (eufemismo per dire: ma che domande fai, pirla?).

Vegas è il luogo dove tutto è possibile: un piccolo e luccicante mondo del vizio, ovvero del piacere e del divertimento piantato in mezzo al deserto del Nevada. Gioco d’azzardo, shopping, abbuffate, show, gadget, luci artificiali, icone dell’immaginario rock e pop, una caterva di posti incredibilmente tamarri e popolari come l’Harley Davidson o l’Hard Rock cafè. Oggi Las Vegas supera se stessa con il Venetian, un grandioso albergo al cui interno, al secondo piano, si può girare in gondola e fare shopping su una ricostruzione perfetta dei canali di Venezia, con tanto di ponticelli, cielo artificiale con nuvole come soffitto, alla Magritte. C’è persino una mini Piazza San Marco al chiuso, in cui si può prendere un gelato al chiosco o mangiarsi una pizza ai tavolini dei ristoranti all’aperto (aperto che, naturalmente, è di nuovo al chiuso). Vegas è un paradosso geniale di accumulo e vuotezza, un calderone variopinto di cose squisitamente inutili, vivaci e pacchiane, di suoni elettronici delle slot machine e dei video poker. Vegas sono i volantini tascabili con le donne nude che ti distribuiscono per strada. Vegas è la kitsch, roboante  e artificiale rappresentazione terrena dell’eccesso. E’ la colonia umana sulla Terra, come quella su Marte nel film Total Recall. Si vive al chiuso, congelati nell’aria condizionata, perché se si esce fuori ci si potrebbe liquefare.

Vegas urla sfacciatamente che l’uomo può tutto. Che la natura non è niente, senza l’ingegno, e che interessa solo in termini di commerciabilità. Che l’uomo può fabbricarsi persino il cielo, il sole, la storia. Si può riprodurre qualunque cosa e renderla una macchina che moltiplica soldi. Impero del caso e del vizio, Vegas ti sussurra che in questa vita balorda di incertezze e frustrazioni tu, piccolo uomo-orologio con scadenza, puoi fare una sola cosa per stare bene: spendere. Buttare i soldi, il tempo e l’anima in tutto ciò che si consuma e si spegne, come le luci (artificiali) della città alle prime luci (vere) dell’alba. Non c’è niente al di là di questo. Carpe diem, fai tutto ciò che vuoi e che puoi, perché è qui sulla Terra, e in nessun altro luogo, il tuo Inferno e il tuo Paradiso di plastica e marmo. Tutto quello che assumi, che usi, che rischi il mattino dopo è scomparso, come scomparirai tu. Dopo aver bevuto, mangiato, rischiato, guardato, comprato, quando dall’aereo sorvoli le montagne arse e cave del Gran Canyon, ti accorgi che di Vegas non ti è rimasto niente, e tu a lei hai lasciato solo pezzi di carta o plastica. Perché il banco vince sempre.

Eppure, quegli alberghi… finti ma veri, senza storia né anima, suscitano qualcosa. Eppure quegli alberghi sono reali. Sono l’apoteosi gigantesca, materica e sfacciata dell’immaginario consumistico che c’è in tutti noi. Al diavolo i radical chic, la raffinatezza, la misura e le letture serali nei circoli arci. Quella piramide, quell’enorme leone d’oro, quel lago e quel galeone, quel castello di re Artù sono dannatamente belli. Si stagliano nella mente di chi li vede per la prima volta come qualcosa che sta a metà tra un sogno, un ricordo, una pazzia. Sono icone senza tempo, ricreate per sorprendere. Non si può essere crudeli con ciò che oggi riesce ancora a suscitare stupore. E’ il sublime artificiale: meraviglia, senza terrore, che si prova di fronte alla grandezza insensata di ciò che ci sovrasta, ma che abbiamo creato noi. Quando Klyukin si immagina una torre a forma di glacette con tanto di bottiglia di champagne da affiancare all’hotel Paris, dove già troneggia una ricostruzione della Tour Eifelle e una gigantesca mongolfiera, capisci che Vegas, nel suo trionfo di superficialità e frivolezza, riesce a stimolare l’immaginazione e l’utopia. Capisci che il gioco, la finzione e l’oblio devono mantenere un ruolo nelle nostre vite, altrimenti è tutto troppo reale, troppo pesante, troppo vero. Capisci che un mondo senza un posto surreale ma concreto, senza un pugno intermittente di eccesso, vacuità e frenesia gettato nel deserto per il nostro diletto, sarebbe un mondo senza immaginazione.

  • Per vedere le opere immaginarie di Klyukin, cliccate sul suo sito ufficiale: http://www.vasilyklyukin.com
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    cieli di plastica al Caesar’s Palace, Las Vegas
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    the MGM, Las Vegas
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    Luxor hotel, Las Vegas

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    The Venetian, Las Vegas
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V. Klyukin, progetto per l’hotel Paris, Las Vegas
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V. Klyukin, Nike di Samotracia
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V. Klyukin, le nuove twin towers

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V. Klyukin, la Venere di Milo