Congetture su una matrioska infinita

La matrioska è un simbolo, un manufatto, un souvenir, ma quasi mai viene indagato il concetto che sottende. Non si tratta solo di un gruppo di bambole di legno. Proviamo ad aprirle, e vediamo che succede.

Quello che una matrioska potrebbe esprimere è archetipico e complesso: l’idea di infinito. In questo tipo di indagine sulla realtà, di raffigurazione materica di concetti astratti, i Giapponesi sono maestri, di fatti la sua origine è attribuita proprio alle statuette di legno, l’una contenuta nell’altra, dell’isola di Honsu. (Sempre giapponese è una festa molto particolare che si organizza per le bambine. I genitori s’impegnano a costruire elaborate case di legno per le bambole, impiegando lunghi mesi. Il giorno della festa, però, la casa di bambola dev’essere distrutta in un solo giorno. Tanto tempo s’impiega per costruire, ma l’attimo è la cifra della distruzione. Proverbiale saggezza giapponese). Tornando alla matrioska, l’idea di qualcosa contenuto in qualcos’altro, che a sua volta contiene qualcosa di più piccolo e così via, richiama l’idea della reductio ad infinitum. Oltre ad essere un sofisma filosofico, il concetto è prima di tutto logico- matematico. La metà della metà della metà, i numeri periodici, l’inesprimibile piccolezza delle micro- particelle atomiche: se rimpicciolissimo le matrioske contenute l’una dentro l’altra all’infinito, incapperemmo nell’idea di infinitamente piccolo, microscopico.

Ugualmente, possiamo invertire il senso di apertura della bambola e prolungarla all’infinito verso la grandezza. Qualcosa di grande che è sua volta è contenuto da qualcosa di più grande, ad libitum. Il richiamo è, in questo caso, alle grandezze infinite, ai numeri astronomici, all’immensità dell’universo. Aristotele aveva concepito l’universo come una pluralità di sfere concentriche, l’una contenente quella più piccola, il cui centro era la Terra. Il cosmo era dunque ipotizzato come un’enorme matrioska celeste. Immaginò 55 sfere, ma se avesse vissuto sino a poter abbracciare le più recenti ipotesi sull’infinità del cosmo, le avrebbe senz’altro prolungate. Per i Greci il concetto di infinito era pericoloso, perciò veniva fatto ricadere nell’idea di eterno. La materia primordiale, khora, nella mentalità greca classica, esiste da sempre. In questo modo il problema della creazione dell’universo viene risolto brillantemente. Addio alle guerre di religione, ai bisticci sterili sull’origine del mondo. Non c’è niente da creare, al massimo potrebbe esserci un demiurgo, e di ciò si può tranquillamente discorrere passeggiando per il peripato con i sandali e la tunica. I Greci sì, che avevano capito tutto. Il problema è quello che è successo dopo di loro.

L’infinito, richiamando l’eternità della morte (o della non-vita, non- nascita), può in tal senso inquietare, perché volge all’inesprimibile, o rasserenare, perché evoca una “profondissima quiete” (come nella celeberrima e omonima poesia di Leopardi). Anche Mikhail Jurevich Lermontov, in una splendida poesia del 1832, parlò dell’infinito (in russo: бесконечность). Nella poesia è espressa l’idea della “stanchezza della vita”, che si può intravvedere in alcuni individui giunti ad una certa età, per cui pensare all’eternità del proprio cammino abbatte, sconvolge. Cosa c’è oltre la vita, cosa accade quando si muore? Chi può dirlo, ma se ci fosse un’altra vita, sarebbe una bella fatica. L’infinito nel concreto non soltanto non esiste, ma se esistesse sarebbe un guaio. Molto meglio trovarsi di fronte ad una strada corta, che ad una infinita, e finalmente riposare (la traduzione è mia).

Слова разлуки повторяя,
Полна надежд душа твоя;
Ты говоришь: есть жизнь другая
И смело веришь ей… но я?…..
Оставь страдальца! — будь покойна:
Где б ни был этот мир святой,
Двух жизней сердцем ты достойна! —
А мне довольно и одной. —
Тому ль пускаться в бесконечность,
Кого измучил краткий путь? —
Меня раздавит эта вечность,
И страшно мне не отдохнуть! —
Я сохранил на век былое,
И нет о будущем забот,
Земля взяла свое земное,
Она назад не отдает!..

Ripetendo parole lontane,/la tua anima è colma di speranze;/tu dici: c’è un’altra vita/e ci credi coraggiosamente…ma io?/Lascia in pace un sofferente/ Sii tranquilla:/dove questo mondo non sia santo,/tu saresti degna con il cuore di due vite!/ A me ne basta anche una./per chi imbarcarsi all’infinito?/Chi è tormentato da una strada corta?/Mi sconvolge quest’eternità,/Per me è spaventoso non riposare!/ Ho conservato il passato per un secolo,/e non ho preoccupazioni sul futuro./La terra ha preso il suo terreno/ e non lo restituisce indietro! 

Giocando a prolungare le matrioske, ci siamo spinti oltre le nostre umane capacità di comprensione. Ci siamo ritrovati ad un passo dall’abisso dell’inconcepibile, oscillare al vertice del quasi eterno e provare un senso di vertigine ed impotenza. Poiché non siamo disperati come Leopardi, e dall’infinito non ci facciamo cullare perché l’idea di quiete eterna in questo momento non ci fa impazzire, forse è meglio seguire il suggerimento di Lermontov, e fare come la volpe e l’uva: l’infinito? La vita eterna, oltre la morte? No, grazie. Sarebbe spaventoso non poter riposare. Ben venga un sentiero corto da percorrere, altrimenti che noia. Come scrisse Altan (citazione più pregnante di quanto non si possa credere!), “noi farfalle si vive un giorno solo, e quando son le sei di sera, si han già le palle piene”. A questo punto, è meglio che la nostra matrioska rimanga ciò che sembra (e che è): una concreta,  finita bambola di legno. Ad estenderne i limiti ci si imbarca ben oltre le colonne d’Ercole. Una matrioska infinita, del resto, non l’abbiamo mai veduta, se non nella nostra immaginazione.IMG_0922IMG_1001