Il sogno di un clown- racconto

IL SOGNO DI UN CLOWN

di Valentina Moretti

Vivere con il volto dipinto d’ilarità. Con la cipria e il colore sul viso, la felicità artificiale stratificata sulla pelle. Nascondersi dietro le risate altrui per non sentire le proprie lacrime, irridere il mondo sotto le spoglie di un pupazzo, senza esser visti davvero. Questa è la vita dei clown del circo. Questa non era la vita di Leša.

Leša era un pagliaccio, ma qualcosa lo differenziava dagli altri. Quando la gente insisteva per vedere il suo vero volto sotto il trucco, Leša rispondeva: “È questo che avete davanti. Non ne conosco altri.”

Sosteneva che al mondo ci sono quelli che diventano clown per dire la verità indossando una maschera e quelli che la indossano per non dirla. Lui non apparteneva a nessuna delle due categorie, perché clown era nato: venuto al mondo a Mosca ventitré anni prima, sorridente, buffo e un po’ patetico, i capelli arruffati, gli abiti troppo grandi. Era cresciuto al circo, sua madre era un’equilibrista, suo padre un clown che li aveva abbandonati per tentare un’altra carriera. Leša adorava i pagliacci, come tutti i bambini. Tirava loro i pantaloni larghi chiedendo di giocare. La cosa curiosa era che voleva anche assomigliarvi. Un giorno chiese al suo preferito, “il clown Petya”, di prestargli il suo cerone, e prese a dipingersi il viso: da quel momento divenne il suo gioco preferito. Passava intere giornate a truccarsi e struccarsi, aiutato dal suo amico. Il suo volto era una tela bianca su cui inventare disegni ogni volta diversi, maschere assurde: non più pietra ossea di derma ma superficie duttile pronta ad assecondare la fantasia. Gli occhi non erano solchi coperti di pelle che racchiudevano bulbi umidi, ma macchie di colore, forme oblunghe che suggerivano innumerevoli prolungamenti attorno a loro. Il naso era una roccia coperta di neve, che poteva tingersi d’ogni colore ed espandersi sulle guance, diventando altro.

Quasi nessuno capiva la sua passione, tranne il clown; persino sua madre Svetlana era preoccupata, perché c’era chi vociferava che non fossero passatempi consoni a un bambino. “Non dovresti permettergli di passare tanto tempo con i trucchi in mano, minaccia la sua virilità” le disse Timur, il suo nuovo compagno, che affittava lo spazio del circo e presso il quale si erano trasferiti da qualche anno. “Per non parlare della frequentazione con quel Petya, un uomo maturo, non certo l’ideale compagno di giochi. Al circo tutti ne parlano.” “Non permetterti di interferire nell’educazione di mio figlio” gli rispose Svetlana. “Lui diverrà ciò che vorrà, io lo accetterò sempre.”

Leša a nove anni già si esibiva con gli altri clown. Nella vita quotidiana era un bimbo taciturno e riservato, ma sul palco diventava un chiassoso esibizionista. Lui e Petya si divertivano enormemente. Dopo le superiori, si iscrisse alla facoltà di Lettere della Lomonosov. L’università per lui rappresentava una seconda vita, completamente diversa da quella sul palco. Fuori dal circo non sapeva mai cosa indossare, ma per il trucco di scena un estro innato guidava la sua mano. Non era mai piaciuta la sua faccia struccata: era banale, il naso troppo piccolo, i riccioli biondi sempre dello stesso colore. Le ragazze, del resto, non lo avevano mai interessato più di tanto. Era uscito con una compagna di classe, ma non era certo la Donna Serpente: quest’ultima era una modella notata su una rivista, in posa per una pubblicità di gioielli; ne aveva conservato la foto, folgorato dal suo trucco. La pelle verde agrume era dipinta delle squame di un rettile, la fronte tempestata di pendagli, le ciglia fili d’argento. Le notti la sognava emergere da un lago con la pelle dipinta, si figurava di scorgerla tra il pubblico.

Un giorno accadde qualcosa di terribile e strano: Petya scomparve senza lasciare traccia. Dovette intervenire il proprietario del circo a calmare i pianti di Leša; gli spiegò che Petya aveva lasciato il circo per una vantaggiosa occasione di lavoro in un teatro. “Tieni, mi ha lasciato questo per te” gli disse, allungandogli un naso rosso di gommapiuma. Leša ne fu deluso e per molto tempo rimase cupo, ma il suo successo a poco a poco lo distrasse da quel brutto episodio.

A poco a poco, divenne il clown più interessante del circo. La sua maschera stravolgeva ogni canone: cambiava ogni sera. Aveva nasi di tutti i tipi: fiori, sfere colorate, stelle, protuberanze luminose, sculture posticce da lui forgiate; usava parrucche insolite, anche lunghe fino a terra. Del sorriso variavano colori e forme. Usava una base bianca sul viso, ma vi dipingeva le cose più disparate: lacrime, arcobaleni, trame psichedeliche, animali, foglie. Era nota la sua maschera Magritte, con bombetta e un cielo di nuvole dipinto sul volto. Che rabbia non poter comunicare il suo successo a Petya, pensava di continuo. Ne sarebbe stato proprio orgoglioso.

Un mattino, mentre il giovane si trovava all’università, in abiti sportivi e insulsi, accadde l’inaudito durante una lezione sul poeta Esenin. Si udì una voce di donna.

“Professore, è d’accordo con chi taccia il poeta di ateismo per questi versi? ʽAh, che perdita ridicola/nella vita ci sono tante perdite ridicole/mi vergognavo di credere in Dio/ora mi è amaro non crederviʼ.”

Leša non sentì la risposta. Era la ragazza a strabiliarlo. Più si muoveva, più la sua pelle si tingeva di verde e di squame. Quando aprì bocca, le uscì una lingua biforcuta, una freccia scarlatta che lo trafisse: la Donna Serpente! Incredibile, era proprio lei: la modella sognata era lì. Seduta fra i banchi, il viso struccato, era differente da come per anni l’aveva ammirata; eppure ne avrebbe riconosciuto i lineamenti fra mille, tanto li aveva studiati! Doveva stupirla.

Guidato da una forza estranea, alzò il braccio. Se ne pentì subito, ma non aveva scampo. Il professore s’interruppe: “Dica pure.”

Leša, raggelato, non aveva idea di cosa aggiungere. Si schiarì la voce e improvvisò, come sulla scena. “Esenin in guerra aveva perso molto, persino la fede. Prendiamo la parola ʽridicoloʼ. È forse ridicolo perdere Dio? Nella risata c’è un mistero. Si ride di ciò che non si vuole svelare.”

“Allude alla relazione di Freud tra motto di spirito e inconscio?” disse il professore.

“Esattamente!” rispose Leša, del tutto ignaro ma con aria dotta. “La risata è espressione dell’inconscio. Esenin, ridendo, si liberava del demone che lo faceva sentire colpevole di essere ateo!”

Fuori dall’aula, la ragazza dagli occhi verdi gli si avvicinò. Impossibile!

“Ciao, sono Vera. Davvero geniale il tuo intervento, complimenti!”

Leša provò a giustificarsi. “Forse ho risposto in quel modo perché sono un attore comico.”

“Adoro il teatro. Dove lavori?”

“Sono agli inizi” le rispose, e tentò di cambiare argomento. “Tu oltre a studiare cosa fai?”

“Sono una modella.”

Nel pensare che era davvero lei, avvampò. Lungo il tragitto verso il metrò, si tormentò all’idea che lei stesse fissando il suo rossore. Come strapparle in pochi secondi un invito a rivedersi?

“La prossima lezione di Rimskij è venerdì. Ci sarai?” chiese lei, sorprendendolo di nuovo.

“Devo esserci!” Leša si pentì subito della sua uscita. “Cioè, devo passare questo esame. A venerdì!” E saltò sul vagone traboccante di emozione.

Venerdì sera la sua esibizione con il viso in stile cubista fu un vero trionfo, ma lui pensava al gelato preso poco prima nel parco con Vera. Era incredibile che una ragazza simile fosse attratta da lui. Si era sempre sentito banale giù dal palco. Il solo cruccio era averla lasciata andar via senza un nuovo appuntamento, preoccupazione esatta, perché Vera non comparve alle lezioni seguenti. Leša pensò al peggio: s’era illuso di piacerle.

Alcuni giorni dopo, la scorse in fondo all’aula. Era tornata, ma l’avrebbe di certo ignorato. Finita la lezione, scappò per non assistere all’umiliazione. D’un tratto, si sentì chiamare.

“Leša! Dove vai con tanta fretta? Neppure mi saluti?”

Era lei. Incredibile!

“Sono stata a Sochi per un servizio fotografico e non avevo il tuo numero di telefono. Ho bisogno dei tuoi appunti. Perché non me li porti dopodomani a cena?” disse, guardandolo negli occhi. Era il suo momento. Incredulo, Leša esclamò, cercando di non saltare di gioia: “Perché no?”

“C’è un locale nuovo dove vado con i miei colleghi della moda. Ecco il biglietto da visita. Lo conosci?”

“Certo” rispose, senza averne idea. Più tardi, scoprì che era un posto esclusivo, per cui occorrevano rubli e vestiti adeguati.

La stessa sera, al circo per il suo spettacolo, con i suoi amati trucchi, Leša disegnò ispirato e sognante una spirale di colori in gradazione, che fece del suo volto un prisma. Si ornò il capo di una parrucca di piume e un cappellino a triangolo. Era la sua donna serpente a ispirargli tanto entusiasmo. Avrebbe comunicato il suo fervore a tutto il pubblico. Fu di nuovo un trionfo.

La sera stessa, mentre Leša già dormiva, la madre ebbe un’animata discussione con il suo compagno.

“Sono stufa del tuo atteggiamento” gli disse lei. Ogni volta che ti racconto dei successi di Leša, non sei felice. So che non è facile per lui accettarti come padre, ma non ne ha mai avuto uno. Il suo l’ha lasciato quando era piccolo, come sai. Forse l’unico che abbia mai avuto era…

“Non parlarmi di quel clown pazzo, Petya! In tutti questi anni non l’hai capito? Non è andato via dal circo spontaneamente, ma è stato cacciato. Ho insinuato io al proprietario che avesse mire malsane su Leša.”

“Come dici? Non posso crederci! Dimmi, è vero?” disse Svetlana, tremando.

“Certamente no, non avevo alcuna prova né motivo per crederlo, ma speravo che Leša avrebbe smesso di fare il pagliaccio e la femminuccia con quei trucchi e mi avrebbe seguito nel mio progetto immobiliare!”

Questo fu il colmo. Svetlana svegliò Leša tra le lacrime e lo pregò di fare la valigia. Si sarebbero trasferiti nella vecchia roulotte al circo, dove per anni avevano vissuto. Leša ne fu sollevato, odiava dipendere dal compagno di sua madre. Inoltre, ben altri pensieri lo agitavano, riguardo all’imminente incontro con la donna dei suoi sogni.

La notte seguente, nella roulotte, non riusciva a prendere sonno. Rigirandosi nelle coperte, preparava discorsi per sembrare affascinante con Vera. All’alba si assopì, pensando che non avrebbe dovuto impersonare nessun altro che se stesso. Al risveglio, prese coraggio per la preparazione all’evento più emozionante vissuto fino ad allora, di cui non voleva perdere un solo istante. Comprò scarpe nere di pelle, per essere elegante. Per ammorbidirle, ci passeggiò tutto il pomeriggio nella roulotte, dato che intorno ai tendoni del circo era pieno di terra: le scarpe nuove schioccavano sul pavimento in un tip tap improvvisato, un rituale preparatorio. La madre lo guardava intenerita; non sapeva perché si fosse comprato quelle scarpe e fosse tanto agitato, ma poteva intuirlo. Leša si provò diverse camicie, e scelse quella più sobria. Si infilò l’unica bella giacca che aveva, di tessuto italiano. La abbinò ai jeans per non risultare ridicolo in un posto alla moda come quello. Respirò profondamente. Si scorse allo specchio e sorrise: era pronto.

Pervaso d’agitazione, uscì dal circo sul retro, per non incontrare nessuno. Scese in metrò, lo sguardo fisso nel suo entusiasmo. Centellinò l’incedere verso il locale. Ogni passo era una danza, un avvicinarsi alla felicità come s’essa fosse una cattedrale: scorgerla dentro una nicchia, come quella di San Basilio, quasi fosse un palazzo di fiaba, un miraggio, un dipinto; vederla farsi sempre più piccola dentro l’arco; introdursi nella Piazza Rossa e trovarsela d’improvviso in prospettiva, libera, lontana un centinaio di passi; giungere di fronte a lei, guardandola crescere ogni istante; ardire persino a entrarvi, visitandone le stanze e le volte. Così entrò nel ristorante, come se avesse posto dentro un sogno le scarpe nuove e ancora rigide, i piedi già pieni di vesciche ma mai tanto orgogliosi di calpestare quel suolo. La vide in fondo alla sala, in un abito color pesca, i capelli a spirale come un gelato di nocciola, bella come l’arcobaleno di latte e zucchero delle cupole della chiesa. Lei si voltò verso di lui, e non distolse gli occhi per tutto il tempo. Era un ottimo segno, pensò, era tutto reale, lo stava guardando! E quando finalmente le fu di fronte disse: “Ciao!”

Vera lo guardò imbarazzata.

“E tu chi sei?”

Leša indietreggiò perplesso.

“Che domande! Sono Leša.”

“Tu sei Leša?” disse lei, incredula, guardandosi intorno con lieve disagio. “È uno scherzo?”

“Non capisco. Non avevamo appuntamento forse? Le lezioni di Rimskij, la passeggiata al parco…”

“Ma certo, so chi sei e ti aspettavo! Parlo di come sei conciato. Non è carnevale. Ti pare il posto dove arrivare così? Divertente, ma incomprensibile. Abbiamo un tavolo riservato. Vai a struccarti in bagno.”

“Non posso” disse Leša, sorridendo.

“Perché no?” rispose Vera, spazientita, estraendo dalla borsetta il cellulare.

“Perché non ho addosso alcuna maschera.”

“Mi prendi in giro?”

“No, Vera. Questo sono io, qui per te! Per darti tutto quello che sono! Per mostrarmi a te nella mia vera essenza. Io sono così, perché tu mi hai reso tale: l’uomo più felice e bello del mondo!” disse Leša, e il suo sorriso si fece ancora più pieno. Si passò una mano nella parrucca di filamenti di stelle e sonagli variopinti, e, mentre Vera indietreggiava, distogliendo lo sguardo, lui la fissò sgranando i grandi cuori rossi e lucidi che aveva per occhi, e ripercorse con la mente il turbine sublime di gioia in cui aveva steso sul volto la maschera più bella e più attesa della sua vita; aveva dipinto di emozione scarlatta e candida, luminosa e accesa, la sua pelle d’oca scossa di brividi trepidanti d’aspettativa; aveva tracciato sulla sua bocca tremante − sperando che un giorno il suo amico Petya tornasse e potesse raccontarglielo, quanto sarebbe stato felice di vederlo a quel modo! − il sorriso più largo e pieno che avesse mai potuto concepire.

Racconto di Valentina Moretti