La vita è breve di Sergej Dovlatov (traduzione inedita)

LA VITA E’ BREVE

Levitskij aprì gli occhi e subito cominciò a ricordare qualche dimenticata metafora del giorno precedente…
“Plenilunio di pasticche alla menta?” “Flessione a banana di mezzaluna?”… Qualcosa del genere, anche se più rilevante per lo spirito.
Le metafore gli comparivano di notte, quando era già coricato nel letto. Il maestro non le annotava per pigrizia. Tempo addietro, si conservavano nella sua mente fino al mattino. Ora, di regola, le dimenticava, non senza un certo piacere. Si preservava la nuvola leggera di una metafora irrealizzata. La chance perfezionata di una piccola avventura verbale.

Levitskij rivolse lo sguardo a un tavolino bianco, di colore ambulatoriale. Notò un’enorme torta in stile dorico. Cominciò a contare le sottili candele ritorte.
“Oh signore, pensò Levitskij, ancora un compleanno.”
Questa frase era degna d’esser serbata per i giornalisti. “Oh signore! Un altro compleanno! Che lieta sorpresa, settant’anni!”.
Si figurò i titoli:
“Scrittore russo festeggia i settant’anni all’estero”. “I libri del festeggiato escono dappertutto, tranne che a Mosca”. Infine: “Oh signore, ancora un compleanno!”.

Levitskij si fece una doccia e si vestì. Ritirò la posta. Sua moglie, verosimilmente, era uscita a prendere i regali. Gerlinda- qualcosa a metà tra una parente e una domestica – lo abbracciò. Il maestro la fermò con le parole:
-Sei nominata nel testamento.
Questo era un loro vecchio scherzo.
Lei gli chiese:
-The o caffè?
-Caffè, direi.
-Come lo desidera?
-Marrone, forse.

Poi udì:
-Vi aspetta una dama.
Chiese subito: -Non con la treccia, spero! (=in italiano: con la falce)
-Vi ha portato una rarità. Un libro, penso. Un incunabolo, ha detto.
Levitskij, sorridendo, disse:
De ses mains tombè le livre,
dans lequel elle n’avait rien lu.
(“dalle mani le cadde un libro non letto…”)

Regina Gasparyan sedeva nell’atrio da oltre un’ora. È vero, le avevano offerto caffè e brioche. Tuttavia, era piuttosto umiliante. Avrebbero potuto almeno invitarla in salotto. La venerazione, dentro di lei, si mischiava all’offesa.
Nella sua borsa era riposto qualcosa, di misura leggermente superiore ad una mini pistola da donna Browning “Elite 16”.

Regina Gasparyan veniva da una nobile famiglia russificata. Suo padre era un noto insegnante dell’accademia Stieglitz. Essendo armeno, si occupava di faccende cosmopolite. Nel 1950 il giudice Chuev lo battè quanto a fisionomia, con l’album di riproduzioni di Degas. Sua madre era una traduttrice qualificata. Conosceva Kashkin. Si frequentava con Rita Kovaleva. Per un mese accompagnò Caldwell nella sua turneè in Transcaucasia. Era rinomata per il carattere difficile e la bellezza esotica, orientale.

In gioventù Regina era la classica scolara sovietica. Partecipava a iniziative indipendenti. Recitava il ruolo di Zoya Kosmodemyanskaya. Il padre, riabilitato sotto Krushev, la chiamava scherzosamente “Zoya Kosmodemyanskaya”.
Arrivò il disgelo. I giovani si riunivano a casa del famoso artista Gasparyan. Soprattutto poeti. Lì si dava loro da mangiare, e soprattutto li si ascoltava pazientemente. Tra di loro, emersero Lipskij e Brein.
Tutti loro si prendevano un po’ cura della bella, erudita e snella Regina. Componevano versi per lei. Per la maggior parte scherzosi, umoristici. Brein le scrisse da Sochi all’inizio della crisi di Damanskij:

Aspettami, e io tornerò, aspetta molto e basta,
Aspetta, quando gli astragali mettono malinconia…

Cominciarono gli anni settanta. Il disgelo, come amano esprimersi i giornalisti emigranti, si tramutò in gelo. Gli amici migliori se ne andarono a ovest.
Regina Gasparyan non indugiò a lungo. Suo marito, un fisico, aveva una buona, per così dire, professione obiettiva. La stessa Regina frequentò l’Inyaz (Istituto di Lingue Straniere). Sua figlia di otto anni parlava un poco d’inglese. La madre aveva parenti lontani a Chicago.

La famiglia cominciò a prepararsi alla partenza. E qui, a Regina venne l’ossessione per Levitskij. I romanzi di Levitskij già da molto circolavano sul Samizdat. Era ritenuto un grande scrittore russo in esilio. Era persino menzionato nell’enciclopedia letteraria sovietica. A dire il vero, usando epiteti vituperosi.
Anche la biografia di Levitskij era nota a tutti. Era figlio di un’eminente personalità menscevica. Aveva frequentato l’istituto Gornij a Pietroburgo. Pubblicò il libro di poesie “Il risveglio”, che da tempo era ritenuta una rarità bibliografica. Emigrò con i genitori nel 19. Studiò alla facoltà di storia e letteratura a Praga. Visse in Francia. Si dilettò a collezionare farfalle. Stampò il primo romanzo sugli “Scritti contemporanei”. Per un anno si allenò come pugile in un quartiere industriale di Parigi. Ai funerali di Khodasevich picchiò il cinico Georgij Ivanov. Peraltro proprio di fianco alla tomba.
Levitskij non sopportava Hilter. Men che meno Stalin. Chiamava Lenin “attaccabrighe con il basco”. Alla vigilia dell’occupazione si trasferì negli Stati Uniti. Passò alla lingua inglese, che tra l’altro conosceva dall’infanzia. Divenne l’unico prosaico russo- americano dei tempi.
Per tutta la vita non sopportò la cafonaggine, l’antisemitismo e la censura. Tre anni prima del suo settantesimo anniversario, si accanì contro il Premio Nobel.
Tutti erano a conoscenza della sua stravaganza. Della linea che aveva tracciato con il gessetto tre camere dopo la sua, in Svizzera. (Proibiva alla moglie e alla cuoca di calpestare il suo territorio). Della secolare causa, intentata senza speranza contro il vicino, che si era appassionato eccessivamente alla musica di Wagner. Delle sue serate con pietanze preparate secondo ricette della Grecia antica. Del suo duello con il chimico Bulavenko, che si era seduto ubriaco sui tasti del pianoforte. Della sua celebre uscita: “Da qualche parte in Siberia ci dovrà essere della letteratura artistica…”.
E via dicendo.

Sul suo snobismo si sprecavano leggende. Così come sulla sua irreperibilità. Che, in sostanza, sono la stessa cosa. A un famoso scrittore svizzero, che gli aveva richiesto un incontro, Levitskij disse a telefono: “Passi pure dopo le due, tra circa sei anni…”.
Che altro dire, se già la conoscenza della cuoca di Levitskij poteva considerarsi una grandissima fortuna…

Tornando al dunque, a Regina Gasparian chiesero:
-Cosa vorresti fare al sud?
S’udì in risposta:
-Molto dipenderà dalla conversazione con Levitskij.

Io penso che lei volesse diventare una scrittrice. Non credeva molto ai giudizi degli amici. Non voleva rivolgersi a eminenze sovietiche. Non le dava pace la frase, detta da qualcuno:
“Via i cappelli, signori! Davanti a voi c’è un genio!”
Chi disse ciò? Quando? Riguardo a chi?…

Alla vigilia della sua partenza, Regina telefonò a tre conoscenti che vendevano libri. Il primo si chiamava Savelij. Le disse:
-“Il risveglio”, signora, è un problema morto.
-In che senso?
-E’ una variante del tipo: “chiedo scusa”.
-Ovvero?
-L’operazione è “spegni la luce”.
-Se è possibile, si esprima in modo più comprensibile.
-La merce è fuori prezzo.
-Cosa significa?
-Significa che i prezzi sono fantascientifici.
-Per esempio?
-Come si suol dire, da…a.
-Non capisco.
-Da tre a cinque. Come da Chukovskij.
-Da tre a cinque cosa? Centinaia?
-Eh, si.
-Ma da Chukovskij si parte da due.
-I prezzi salgono…

Regina chiamò un altro tale, che faceva “Shmyglo” di cognome, o soprannome. Quello rispose:
-Chi è questo Levitskij? E cos’è ancora questo “Risveglio”? Non vuole per caso Simenon?

Il terzo venditore disse:
-Ce l’ho, la raccolta giovanile di Levitskij. Sfortunatamente, non è in vendita. Sono disponibile a scambiarla con i quattro tomi di Mandel’stam.
Alla fine, ne risultò un lungo triplo scambio. Regina prese da qualcuno un apparecchio acustico straniero. Assunsero qualcuno, su raccomandazione, all’accademia tecnico- forestale. A qualcuno toccò una mediazione per estorsione e ricatto. A qualcuno, una piastrella di rivestimento finlandese. In ultima tappa, comparve il tomo di Mandel’stam (sotto la redazione di Filippov e Struve).

Dopo un mese, Regina reggeva davanti a sé il sottile e inverdito libro. Edizioni “Iperborei”. San Pietroburgo. Anno 1916. Ivan Levitskij. “Il risveglio”.
Regina sapeva che neppure lo stesso Levitskij era in possesso di quel libro. Di questo s’era parlato nella sua famosa intervista per “La voce dell’America”. Chiesero a Levitskij:
-Qual è il suo rapporto con le poesie giovanili?
-Le ho dimenticate. Erano bozze dei miei successivi romanzi. Non esistono. L’ultimo esemplare sopravvissuto è bruciato in una stufa nella mia dacia a Kuntsevo.

D’inverno, Regina ricevette il permesso di espatriare. Poi accadde di tutto. Una scena disgustosa alla dogana. Tre mesi di miseria a Ladispoli. Un’estate umida a New York, dove lei e il marito avevano paura di uscire dall’albergo. Il primo ufficio, dal quale la licenziarono con la formula dello“ zelo eccessivo”. Alcuni racconti sulla gazzetta degli emigranti, che le vennero pagati 30 dollari. Quindi, il tentativo di ascesa del marito, che fu inaspettatamente contattato dall’azienda “Ekson”. Questo significò una casa di proprietà, viaggi in Europa, discorsi sulle tasse…

Passarono sei anni. Regina pubblicò il primo libro. Suscitò reazioni positive. A dirla tutta, uno dei recensori fui io stesso.

In tutti questi anni, lei aspirava a conoscere Levitskij. Tramite Gordej Bulakhovich venne in contatto con una sua cugina di diciotto anni. Nel frattempo, quella riuscì a litigare con il celebre parente. Concretamente, discussero su dove si trovasse la sauna nella tenuta natale dei Levitskij, Khovrino.
Regina si rivolse a Yanson, all’arciprete Konstantin, alla figlia di Zaystev: Olga Borisovna. Il vecchio scrittore Yanson rispose: “Levitskij ha detto di me a Edmund Wilson che io sono, chiedo scusa, una merda…”.
Padre Konstantin le scrisse: “Levitskij non è un cristiano. È troppo egoista per esserlo. Non dispongo, ahimè, del suo indirizzo.
Zaytseva-Reynolds le inviò un indirizzo di Berlino e una nota:
“L’ultima volta che vidi quest’odioso ragazzo, fu nel 34. Ci incontrammo alla premiere di Tannhauser. Ricordo che lui disse:
“Ho l’impressione che abbia cantato un equipaggiamento di cartone, resuscitato inaspettatamente.”
Da quel momento non ci siamo più visti. Temo che il suo indirizzo possa essere cambiato.
Ad ogni modo, Regina ricevette il suo indirizzo svizzero. Come emerse, l’indirizzo era presso l’editore Polacco. Regina scrisse a Levitskij una breve lettera. Lui rispose esattamente dopo due settimane: “L’indirizzo lo sa. Io lavoro dopo le sei. Perciò, venga di mattino. E, per favore, senza fiori, che hanno l’abitudine di appassire. Post scriptum: non inciampi nei miei scarponi, ché la notte metto fuori dalla porta”.

Seduta nell’atrio, Regina rifletteva. Perché quest’uomo vive in albergo? Può essere che lo disturbi l’idea della proprietà? Bisognerebbe fargli questa domanda. E ancora: cosa pensa Levitskij di Solzenicyn? Sono talmente diversi…
-Buongiorno, Ivan Vladimirovich!
-I miei omaggi, rispose un signore alto, dai capelli rasati.
Quindi egli, senza sedersi, chiese:
-Beve qualcosa?
-Ho già un caffè, e lei?
Levitskij sorrise e lentamente declamò:

Io bevo whisky non diluito
Bevo vodka con caviale granuloso
Mentre il mio amico, lo scrittore Levitskij,
solo le farfalle tormenta, l’eroe.

-Questi versi sono di un mio amico.
Quindi, dopo due secondi di silenzio:
-In cosa posso aiutarla, signora?
Regina si sporse leggermente in avanti:
-Bisogna dire che io sono una sua fan da lungo tempo. Specialmente apprezzo “La Riva lontana”, “La sfera”, “La genesi del tango”. Ho letto tutto questo ancora a casa. Il rischio è solo di aumentare il piacere estetico…
-Sì, – la interruppe Levitskij- lo so. È qualcosa di simile a Paul de Kock o a Maupassant. Lo leggi da bambino, con il rischio di restarvi agganciato…Mi scusi, in cosa posso aiutarla?
Regina s’imbarazzò lievemente. L’importante era non fare pause. Lui era un misogino sul serio…
-So che oggi è il suo compleanno.
-Grazie di avermelo ricordato. Un altro compleanno, una lieta sorpresa, settant’anni.
Levitskij improvvisamente passò a parlare sottovoce. I suoi occhi si sgranarono in modo strano.
-Si ricordi l’essenziale- disse- la vita è breve…
Regina, superando l’imbarazzo, disse:
-Mi permetta di darle qualcosa…Io spero…io sono sicura…insomma, ecco…
Levitskij prese un piccolo pacco postale giallo. Lo aprì, tirando fuori dalla tasca delle forbici da manicure. Ora reggeva in mano il proprio libro. Carattere antico, retro scollato, trentotto fogli di carta orrendamente artigianale.
Aprì la sesta pagina. Lesse il titolo: “Sentieri di un sogno”. Eccolo, il noto a capo sgrammaticato “imbar- azzo”. Per di più, senza il puntino sulla lettera i.
-Oh signore- disse Levitskij- un miracolo! Dove l’ha pescato? Ero sicuro che non ne esistessero copie. Le ho dischiuse a tutto il mondo…
-Lo prenda- disse Regina- e ancora…
Trasse dalla borsa un manoscritto in una busta stretta. Levitskij aspettava cortesemente. Da parecchio tempo, con sforzo studiato, domava la maschera di dolore sul suo viso. Quindi chiese:
-Questo è suo?
Regina rispose con dovuta trascuratezza:
-Questi sono i miei ultimi racconti. Non i migliori, ahimè. Vorrei che…se ciò fosse possibile…ecco, il suo parere….letteralmente, in due parole…
-Le interessa una risposta scritta?
-Sì, sa com’è, proprio tre parole…indipendentemente da…
-Le manderò una cartolina.
-Fantastico. Il mio indirizzo è sull’ultima pagina.
Levitskij si alzò.
-Ed ora, mi voglia scusare. Procedure.
Tintinnando il cucchiaino, Regina allontanò la tazzina. “Potrebbe anche informarsi su dove mi sia fermata ad alloggiare…”.
Levitskij le baciò la mano.
-Grazie. Temo che i miei versi giovanili non meritino le sue faccende.
Si girò e diresse verso l’ascensore. Regina, fumando nervosamente, andò verso la porta girevole.

Levitskij salì al terzo piano. All’uscio della sua stanza, si fermò. Estrasse dalla busta il manoscritto. Strappò il pezzo di carta con l’indirizzo. Lo infilò nelle tasche dei pantaloni di flanella. Sollevò la canna di nichel dello scarico della spazzatura. Strinse nel palmo il piccolo libro e quindi, solennemente, lo gettò nell’oscurità profonda. Sempre laggiù, sfiorando i muri del condotto della spazzatura, volò il manoscritto. Riuscì a leggerne il titolo: “Estate a Carlsbad”. Istantaneamente nacque il testo:
“Ho letto il vostro piacevole e chiaro Estate ben due volte. In esso c’è una sensazione di vita e di morte. Ma anche il presentimento dell’autunno. Mi congratulo…”
Entrò nella sua stanza. In quel momento chiamò la cuoca e disse:
-Giochiamo ad akulina (a carte)?

Racconto di Sergej Dovlatov nella raccolta “La vita è breve”

Traduzione di Valentina Moretti

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2 Risposte a “La vita è breve di Sergej Dovlatov (traduzione inedita)”

  1. Penso che lei non abbia colto l’ironia della battuta sulla donna che lo aspettava:

    — Вас ожидает дама.
    Быстро спросил:
    — Не с косой?

    – L’aspetta una donna
    Subito chiese:
    – Mica con la falce?

    Evidentemente si riferiva ironicamente alla Morte, non a una donna con la treccia

    1. Grazie per la segnalazione, Petr! In realtà sapevo che in russo l’espressione “donna con la treccia” significa Morte, cioè la nostra “dama con la falce”, e volevo lasciare la traduzione letterale. Avevo intenzione di inserirlo in nota per i lettori italiani, ma me ne sono dimenticata! Dunque grazie davvero per il commento!

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