La maschera, la morte e la paura hanno il colore bianco

Chi ha detto che il bianco sia simbolo di purezza? Chi dice che la morte debba essere nera? La simbologia sottesa al colore bianco si può associare ugualmente alla morte. Nell’immaginario collettivo, il momento del trapasso è tutt’altro che buio: ricorrente è l’idea che il malato veda una luce bianca, un bagliore.

Nella mentalità cristiana, il bianco rappresenta la pace, il bene, l’anima assolta dal peccato. La sposa veste di bianco, erroneamente a quanto si pensa, non perché rappresenta la purezza, ma per una pura questione di moda (la prima a lanciarla fu Maria Stuarda nel 1558, alle sue nozze). Per alcuni popoli orientali, è il bianco è legato al lutto, e non il nero come per noi. C’è un che di inquietante in questo colore. L’associazione con gli spiriti, i fantasmi, non è l’unica che viene in mente. C’è qualcosa che spiazza, che fa tabula rasa e richiama il nulla. Il bianco implica l’idea che quel manto puro si sporchi, facendo contrastare qualunque colore che gli si accosti. Il bianco fa paura!

Una serie di dipinti gotici che portano avanti questa idea sono quelli del pittore americano Michael Hussar, in cui il peccato è declinato in diverse forme, attraverso figure tutte bianche, tratte dal mondo circense o dall’immaginario dark, che disturbano la vista (la sensazione è un misto fra il disgusto e l’inquietudine).

Michael_Hussar_dark_art_6
Un’opera di M. Hussar

Uno stile meno figurativo e kitsch si può trovare in grandi pittori come James Ensor e le sue maschere. Nel dipinto “Masks confronting death” (1888), alcune maschere variopinte si confrontano con la Morte, rappresentata come uno scheletro vestito di bianco. Il bianco è infiltrante, e domina tutto il quadro, dando una sensazione di angoscia estrema. Sebbene il pittore trovasse nelle maschere energia, forza, decorazioni e freschezza di colore, esse appaiono più inquietanti della morte stessa.

DSC_6455
J. Ensor, “Masks confronting death”

Come nell’autoritratto di Mica Popovic (1947), pittore serbo, che si ritrae con una maschera bianca e sorridente a coprirgli il viso, che dà i brividi. Del resto è celebre la famosa fobia per i clown e il loro volto bianco e forzatamente sorridente, che ha ispirato il maestro dell’horror Stephen King.

Popovic Mica, autoritratto con maschera
Mica Popovich, Autoritratto con maschera

La maschera oggi è un modo per celare la propria identità, ma anche, nel teatro, per calarsi in quella di un altro.  Anticamente, infatti, il concetto di maschera era associato a quello di uscita da sé. Nei riti dionisiaci dell’antica Grecia, l’uso delle maschere simboleggiava proprio l’uscita dal proprio Ego, per divenire Altro e unirsi alla divinità di Dioniso. La maschera rappresentava dunque il tramite concreto tra uomini e dei. Eppure il  legame tra maschere e morte, defunti, è altrettanto antico e connaturato nel termine. Non solo in antichità si usavano le maschere funebri, ma proprio l’etimologia della parola è fatta risalire, secondo alcune ipotesi, al termine “fantasma” oppure “strega”. Forse la spiegazione risiede nel fatto che la morte rende ogni volto una maschera: bianco e statico. Divenire altro significa divenire… morto. Stando all’arabo, il termine è invece connesso con l’idea di burla. Questa dicotomia di significati, tra la morte e la burla, è ciò che rende la maschera così spaventosa. Perché nella morte c’è qualcosa di talmente profondo, ignoto e terrificante, che l’unico approccio per sopportarla e sdrammatizzarla sembra essere proprio quello del riso, dell’ironia.

Altrettanto inquietante è lo “Studio dal ritratto di Innocenzo X” del celebre pittore irlandese Francis Bacon. Il quadro deforma l’opera originaria di Velasquez, ritraendo il papa urlante e con una serie di linee gialle verticali che danno un senso di ansia e caduta. Anche in questo caso, non solo la veste, ma anche il volto del papa è completamente bianco.

Innocenzo X
F. Bacon, “Innocenzo X”

La morte nella cultura europea (e in parte slava) si sa che è rappresentata come uno scheletro (di nuovo, il bianco ricorre) ma con una tunica nera, incappucciato e con la falce. Nella mitologia slava la morte è donna (come del resto è al femminile il nome, sia in italiano che in russo). Si chiama Mara o Marena ed esiste anche nel buddismo (la radice è indoeuropea, marmor, morom, cioè morte). E’ raffigurata come una bella donna dai capelli neri, vestita di rosso. Nella cultura slava (in particolare in Polonia) si costruisce un fantoccio di paglia che raffigura Marena, e spesso lo si veste di bianco, o da sposa. Il pupazzo, secondo il rituale, va distrutto (gettato nel fiume o bruciato), per scongiurare sventure. La sua distruzione porta buon raccolto, l’arrivo dell’estate, protezione del villaggio contro calamità varie e malattie. Anche in Ucraina compare Marena, spaventapasseri che portano in giro per i campi, attorniato da bambini, ragazzi e ragazze. E’ chiamato Marena anche un alberello decorato con nastri, ghirlande e fiori, vicino a cui si poneva una bambola di paglia in abiti femminili, e mentre le bambine danzavano, i bambini furtivamente rubavano Marena, lo distruggevano, lo gettavano in acqua. Le parti dell’alberello distrutto venivano portate dalle ragazze all’orto per assicurarne la fertilità.

La raffigurazione della morte, dunque, coincide con quella di un fantoccio, una maschera, e richiama il dipinto di Ensor. Anche Dostoevskij, quando descrive Nikolaj Stavrogin ne “I demoni”, dice che il suo volto è talmente bello da sembrare una maschera di cera, chiaramente intendendo connotarlo come ossesso, demoniaco appunto. Stavrogin indossa una maschera in società, che lo fa apparire come educato e affascinante, ma sotto di essa si cela un’altra maschera, connotata con il Male. A volte la maschera satanica ha il sopravvento e distorce il suo “volto di cera”. Non si riesce più a capire, nel corso del romanzo, non solo quale delle sue maschere sia la più temibile, ma se di fatto siano maschere o la vera essenza di Stavrogin, e se celino il divino, o il demoniaco. Il volto orribile che vediamo su certe maschere, e che ci terrorizza in quanto la sua espressione è fittizia e statica, quindi in un certo senso disumana, in realtà fa meno paura di quello nascosto sotto di esse: è l’ignoto, l’Altro sconosciuto e reale, ad essere la fonte del vero terrore. Un volto che, quanto più è simile a quello umano, tanto più rappresenta il suo alter Ego. Un velo che, tanto più è chiaro ed opaco, tanto più la sua vista suscita la sana paura di squarciarlo. E allora, in molti casi, potremmo dire che è bene tenersi strette le proprie maschere, perché la verità celata sotto di esse non è filtrata, non è enfatizzata da un largo sorriso o  esasperata da un volto truce: la sua cruda normalità, senza redenzione né ironia, può essere ben più amara e destabilizzante.