Il quarto fratello Karamazov

“Nella pittura di Kramskoy c’è un meraviglioso dipinto chiamato Il contemplatore: vi è raffigurato un bosco d’inverno, e nel bosco, lungo la strada, sta un contadinotto solitario, con un caftano a brandelli e dei sandali di corteccia di tiglio, come perso nei suoi pensieri, ma non pensa, piuttosto “contempla” qualcosa. Se lo si urtasse, avrebbe un sussulto e vi guarderebbe, di certo svegliandosi, ma senza capir nulla. Certo, si riprenderebbe subito, ma se gli si domandasse a cosa stava pensando, non ricorderebbe niente; in compenso, però, conserverebbe una sorta d’impressione, sotto l’influsso della quale si trovava durante la contemplazione. Le impressioni gli sono care, e probabilmente le accumula, senza volerlo né persino saperlo- per qual motivo e a che scopo, ugualmente lo ignora: può essere che, improvvisamente, dopo aver accumulato simili impressioni per anni ed anni, molli tutto e se ne vada a Gerusalemme, a peregrinare per il mondo e fare penitenza; oppure, potrebbe dar fuoco al suo villaggio natio, oppure potrebbe fare l’una e l’altra cosa insieme. Di individui contemplatori, nel popolo, ve ne sono parecchi. E anche Smerdjakov era sicuramente uno di quelli, e accumulava avidamente le sue impressioni, quasi senza sapere bene perché”.

“У живописца Крамского есть одна замечательная картина под названием «Созерцатель»: изображен лес зимой, и в лесу, на дороге, в оборванном кафтанишке и лаптишках стоит один-одинешенек, в глубочайшем уединении забредший мужичонко, стоит и как бы задумался, но он не думает, а что-то «созерцает». Если б его толкнуть, он вздрогнул бы и посмотрел на вас, точно проснувшись, но ничего не понимая. Правда, сейчас бы и очнулся, а спросили бы его, о чем он это стоял и думал, то наверно бы ничего не припомнил, но зато наверно бы затаил в себе то впечатление, под которым находился во время своего созерцания. Впечатления же эти ему дороги, и он наверно их копит, неприметно и даже не сознавая, — для чего и зачем, конечно, тоже не знает: может, вдруг, накопив впечатлений за многие годы, бросит всё и уйдет в Иерусалим, скитаться и спасаться, а может, и село родное вдруг спалит, а может быть, случится и то, и другое вместе. Созерцателей в народе довольно”.

Questo leggiamo ne I fratelli Karamazov (la traduzione è mia). Il dipinto cui Fedor Mikhailovich si riferisce, “Il contemplatore” di Kramskoy, è conservato al Museo di Arte Russa di Kiev, e risale al 1876. E’ di poco antecedente, dunque, alla pubblicazione dell’ultimo, del più grandioso (e si potrebbe aggiungere “definitivo”) romanzo di Dostoevskij, uscito nel 1880. Appartiene al tipo di pittura cui Kramskoy si dedica tra il 1870 e il 1880, ove predilige raffigurare gente del popolo, contadini, che vivono una vita semplice ed emozionale. Nel quadro si vede, proprio come descritto, un contadino, le braccia conserte, gli abiti logori, che si è fermato improvvisamente lungo il suo cammino, a guardar qualcosa d’indefinito, forse nulla. Il dipinto colpì il mecenate Pavel Tret’yakov, che lo commentò così: “Lo chiamo contemplatore perché vedo che sta contemplando… non dico che egli contempli assiduamente la natura: può essere che contempli la sua quieta vita famigliare dopo la fine del cammino, può essere che contempli l’ineluttabile povertà e il freddo, e la fame e la rabbia che lo aspettano e a casa, forse, l’allegria della prima taverna gli sovvenga, o forse potrebbe soltanto immaginare, come se ogni minuto stringesse qualcosa- se Dio lo aiutasse!”

Kramskoi_Meditator_1876

Il parallelo tra il servo Smerdjakov e “Il contemplatore” è particolarmente efficace nel darci un’immagine reale del quarto fratello Karamazov, il più sottovalutato, ma che è il personaggio chiave del romanzo. Si parla sempre di tre fratelli: Dmitrij, il maggiore, additato come parricida, scriteriato, in competizione con il dissoluto padre Fedor Pavlovich; Ivan, il fratello di mezzo, quello più interessante, colto ed intelligente, fautore di una delle più belle e solide teorie ateiste mai scritte nella storia (nel suo racconto “La leggenda del grande inquisitore”); infine Aleksey, il fratello devoto, religioso, che rappresenta lo stremlenie (aspirazione) verso il bene e la purezza d’animo. Il servo Smerdiakov, figlio non riconosciuto di Fedor Pavlovich e della “Smerdjashaya” (la “lurida” ma юродивая, jurodivaya, “pazza di Cristo”), silenzioso e contemplatore, è il fulcro del dramma che egli stesso consuma, uscendo poi di scena nella stessa maniera, imprevedibile e dissennata, con cui aveva compiuto il delitto. Di assassino vero, nel romanzo, ce n’è uno solo, ed è proprio Smerdjakov, costretto ad una vita modesta, coperto di vergogna ed indifferenza sin dalla nascita, privo del riconoscimento come figlio e fratello e della possibilità di vivere come si deve. E’proprio come vittima di un padre scellerato che lo rifiuta e delle conseguenze di una vita infelice, che lo descrive l’avvocato difensore al processo finale, additandolo come colpevole dell’omicidio di Fedor Pavlovich, e, seppure il suo discorso sia intriso di retorica per ovvi fini processuali, l’intuizione corrisponde a verità. Ed ecco che Smerdjakov, come il modesto contemplatore del dipinto di Kramskoy, sta in mezzo ad un sentiero e contempla, come una sinistra, tacita e spregevole serpe, conosce tutto della casa del suo padre-padrone Fedor, ascolta ogni battibecco e segreto dei Karamazov. E’la quiete prima della tempesta: osserva la realtà ma non dice mai la sua opinione, piuttosto la insinua, la fa emergere lentamente nella coscienza di Ivan e in quella collettiva del popolo giudice e spettatore dell’omicidio. Smerdjakov è l’innominabile voce della coscienza, l’insospettabile orrore del delitto, proprio perché sottovalutato (al contrario, architetta in maniera magistrale ed estremamente intelligente non solo l’omicidio, ma anche la sua assoluzione).

Un solo omicidio ma tre possibili assassini, tre mandanti, tutti fratelli, tutti potenziali parricidi: ecco la maestria di Dostoevskij che mai come in questo romanzo emerge. Ivan è il teoreta che, al pari di Raskol’nikov, con il suo dirompente e colto ateismo tesse il terreno ove l’omicidio può e deve essere commesso (“se Dio non esiste, allora tutto è permesso”), ma da bravo uomo di cultura se ne lava le mani e accetta il suggerimento di Smerdjakov di andare a Chermashnia proprio mentre dovrebbe avvenire il delitto; Dmitrij è la vittima predestinata ma innocente, il pasticcione ubriacone e donnaiolo, rissoso e dissoluto, che va incontro alla sua inevitabile ed ingiusta condanna poiché l’evidenza delle prove, avvalorata dalla sua fama, impediscono di assolverlo. E poi c’è Smerdiakov: da capro espiatorio, usato come escamotage per scagionare Dmitrij (gli unici due possibili sospettati sono effettivamente loro), ecco che a mano a mano diviene l’autore. Schiacciato da un’intelligenza notevole che non riesce ad indirizzare né coltivare, affascinato dalle teorie ateiste di Ivan Karamazov, destinato a vivere nell’ombra e nella povertà, egli da contemplatore si tramuta in attore per un tempo breve e fatale. L’ex contemplatore vivrà per poco sotto le luci della ribalta: togliendosi la vita, sancirà in maniera assoluta la sua inferiorità, ripristinando lo status quo: la scena gli verrà di nuovo rubata da Dmitrij. Il colpevole e assassino è sempre lui, un Karamazov a pieno titolo, ché Smerdiakov non viene ritenuto dai più neppure degno d’essere un omicida.

Questo “contemplatore” è allora il vero protagonista, la personificazione del diavolo in veste di gentiluomo e parassita sulla cinquantina, che si presenta alla coscienza delirante di Ivan, uno “Stavrogin del sottosuolo”: l’altra faccia, dimessa e strisciante, del bel demone mondano dell’alta società. Smerdjakov è il braccio del parricidio, ove la mente (inconsapevole?) è Ivan Karamazov. Lo si potrebbe assimilare a Kirillov: il più ossesso de I Demoni, l’unico che agisce davvero, che prende sul serio la morte di Dio, assumendola su di sé tramite il suicidio come affermazione dell’ultimo e supremo atto di volontà dell’uomo senza Dio. In Smerdjakov, tuttavia, le teorie nichiliste di Ivan non attecchiscono in maniera fanatica e totalizzante, come in Kirillov con Stavrogin: a causare il delitto e il conseguente suicidio è più l’oscurità della sua natura, l’impossibilità di indirizzare la sua intelligenza, il destino di trovarsi intrappolato in un ruolo di sottomissione. La volontà di non confessare il delitto e precipitare nel dimenticatoio e nell’Inferno parossistico dei non credenti rappresenta la messa in pratica dell’annuncio della morte di Dio (premonitore e sorprendentemente acuto: il primo ad annunciarla, seppure con conseguenze diverse, è Dostoevskij e non Nietzsche), di cui Smerdjakov comprende ma non digerisce la portata. In questo senso egli è “contemplatore dell’ateismo”, ove con contemplazione intendiamo guardare senza capire, agire senza pensar troppo, capire ma non ragionare.

Proprio Smerdjakov, il quarto fratello Karamazov, mai chiamato tale nel romanzo, è il rappresentante più alto e proprio dello spirito karamazoviano: quello spirito che, come una litote vivente, afferma negando, che “è in grado di mescolare tutti i contrari possibili e contemplare nello stesso istante entrambi gli abissi, l’abisso sopra di noi, l’abisso degli ideali elevati, e quello sotto di noi, l’abisso della degradazione più abietta e fetida”. 

2 Risposte a “Il quarto fratello Karamazov”

  1. Sono un grandissimo fan di Dostoevskij e sono d’accordo sul fatto che I fratelli Karamazov sia la sua opera migliore. Complimenti per il blog, ci sono articoli davvero interessanti e ben scritti e gli argomenti trattati sono sempre all’altezza. Una rarità di questi tempi.

    1. Grazie davvero per apprezzare il mio blog. W Smerdjakov. Ti segnalo anche lo sceneggiato televisivo RAI del 1969, “I fratelli Karamazov”, diretto da Sandro Bolchi.

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