Dovlatov: una valigia di ricordi

Si sente dire spesso: tenete fuori le vostre vicende autobiografiche dai vostri romanzi, se volete diventare dei bravi scrittori. In effetti, alla vita privata di ignoti quasi nessuno è interessato, e la scrittura dovrebbe prima di tutto attirare un pubblico universale.
Ebbene, Sergey Dovlatov se ne sarebbe del tutto fregato, di un simile consiglio. Avrebbe risposto tranquillamente che: “il narratore racconta come vivono le persone, il prosaico come dovrebbero vivere, lo scrittore per che cosa vivano”. Dunque, non fu mai un vero scrittore, ma piuttosto un narratore, perché nelle sue opere raccontava i suoi ricordi, la vita sua e delle persone intorno a lui per ciò che era. Molti si chiederanno: chi diavolo è Dovlatov? Devo confessare che neppure io conoscevo questo scrittore, nonostante in Russia sia molto noto, un classico ormai. Me l’ha consigliato un amico, che ringrazio. Di origine ebraica e nato ad Ufa, Dovlatov è emigrato in America dove è morto nel 1990. Il suo stile è realistico, cinico, ironico. Fu un grande ammiratore di Chekhov, a cui si ispira. I critici lo descrivono come credente in un’unica cosa: nella улыбка разума, il sorriso della ragione.
La sua opera più nota è La valigia. Il libro è strutturato in capitoli, con una sorta di indipendenza reciproca, nominati come un indumento; ognuno racconta un aneddoto autobiografico, un ricordo legato proprio ad un oggetto nella valigia del narratore. Abbiamo questo modo capitoli del tipo: l’abito a doppiopetto, la camicia di popeline…. Il tono è veloce, spoglio di qualsiasi particolareggiata descrizione. Il suo particolare humour è da un lato tipicamente ebraico perciò cinico ed irresistibile, dall’altra davvero “russo”, nel senso di pratico, spoglio di alambicchi e giri di parole: arriva dritto al segno.
Ci tengo a citare le frasi che ho preferito:
“Avendo uno stipendio alto, si può concedersi un lusso come la bonarietà.”
“Non so cos’è la libertà- un concetto filosofico. Non mi interessa. Gli schiavi non si interessano di filosofia. Andare dove vuoi- questa è libertà!”.
Si evince subito che la filosofia di Dovlatov è “minimalista”, ma molto efficace. Descrive in maniera fedele e divertente la tipica vita da squattrinato durante l’Unione Sovietica, le tipiche abitudini russe, condite di ubriacature che provocano pugni e conseguenze ai limiti del reale, non senza una sfacciata critica alle stranezze e alla miseria del regime, filtrata dal suo humour. I suoi libri non vennero mai pubblicati durante l’URSS, e l’edizione del suo primo libro venne addirittura distrutta dal KGB. Tuttavia, se volete capire di più del mondo russo di quell’epoca, questo è un libro che fa per voi, proprio perché dice le cose come stanno. Un episodio tipo è quello in cui Dovlatov accompagna il fratello ad ottenere un prestito, e la moglie gli chiede di comprare con un rublo l’olio di semi di girasole. Naturalmente quel rublo verrà speso in vodka sotto l’insistenza del fratello, che nel frattempo, facendo a botte con un altro bevitore, riesce a scambiare furtivamente il suo vecchio cappello con quello nuovo dello sconosciuto. “Che mi importa dell’olio, se ora ho un nuovo cappello?”- biascica alla moglie Dovlatov, rincasato come sempre tardissimo ed in pessime condizioni.
Un episodio che mi ha colpito è quello degli scarponi. Viene narrato di come, all’inaugurazione di una statua in metropolitana- costruita da Dovlatov stesso e da altri poco sobri soggetti- egli, ritrovatosi seduto a cena con eminenze del governo, scorge sotto il tavolo gli scarponi del sindaco, che quest’ultimo si era tolto silenziosamente mentre intratteneva gli ospiti. Viene colto da un irrefrenabile, repentino ed inspiegabile desiderio di rubarli. E’ un attimo: con nonchalance li infila nella sua sacca, e prosegue la cena fingendo indifferenza. Diverse sensazioni lo pervadono, fino al terrore quando il sindaco scopre dello scandalo e finge un malore pur di allontanare gli ospiti e non mostrarsi senza scarpe. Ho trovato l’episodio squisito non tanto per il suo esser buffo, ma perché quel genere di raptus improvvisi e privi di alcuna logica mi hanno ricordato certi momenti dell’infanzia o dell’adolescenza (e non solo!) in cui la tentazione- trovandosi per caso di fronte a qualcosa di proibito ed invitante- di compiere un gesto del tutto rischioso, è talmente forte da andare contro tutto. Qualcosa di esterno guida i nostri gesti meccanicamente, quasi come se il richiamo a trasgredire venisse da un quid al di fuori non soltanto della razionalità, ma persino della comprensione. Mai ci si sarebbe  potuti immaginare di fare qualcosa di simile prima, né si potrebbe farlo fino all’esatto momento in cui il caso ci mette di fronte a quella possibilità- che diviene imperativo. C’è qualcosa di tragicomico in questo. Non si può evitare di rispondere a quella tentazione. E’ in quell’esatto momento che ci trasformiamo in vittime di qualcosa che suonerebbe troppo sciocco per esser degno d’una spiegazione. Se ci coglieranno con le mani nel sacco, sarà la vergogna più totale, eppure, se potessimo tornare indietro, non potremmo che ripeterci: lo rifarei. Non perché sia stato divertente- anzi, a ripensarci quasi ne siamo imbarazzati- ma solo perché non avevamo alcuna scelta. E c’è da crederci, c’è da esser seri nel dire che a volte ad una cazz.. non c’è scampo.
Di questo e di altre sensazioni e pezzi di vita scriveva Dovlatov. Non scriveva di angeli né demoni, ma di gente comune come lo era lui, intrappolata tra i doveri e i desideri, tra la libertà di decidere cosa fare di se stessi e gli obblighi di sbarcare il lunario portando a casa qualche rublo; scriveva della vita in maniera concreta, di ciò che è nei suoi accadimenti, nel suo scorrere leggero, farsesco e privo di senso; narrava di “come le persone non riescono a vivere, restando allo stesso tempo persone libere”. Dove sta, dunque, la salvezza in un mondo individualista in cui tutto è incentrato su come si riesca a rendere la vita accettabile, tramutare l’inferno interiore in paradiso? Secondo Dovlatov stesso,  nel piacere delle relazioni, dello scambio verbale. Il racconto rivolto ad un pubblico è l’unica vera apertura dell’uomo individualista verso gli altri, verso l’universale. Dispiegando la propria vita in una prosa, cioè narrandola, essa stessa acquista senso e diviene condivisibile. Se Dostoevskij scriveva che la bellezza salverà il mondo, Dovlatov potrebbe rispondergli che lo farà il dialogo.