NON CI PENSARE

 Un tempo ci insegnavano a pensare. Si andava a scuola o all’università, e si imparava un metodo di studio; si leggevano brani di studiosi antecedenti e si arrivava a comprendere il loro pensiero, per poi a propria volta produrne di propri. Oggi ci insegnano a NON pensare. Dai, guarda la tv per non pensare, fai zapping, naviga in Internet, fai foto e gioca con il cellulare, per non pensare. Laggiù ti attende una malattia o un incidente che ti ucciderà, ma non ci pensare. Ci sono persone che vivono nel dolore, ma non ci pensare. Le tue azioni stanno crollando, ma non ci pensare. Potrebbe scoppiare la terza guerra mondiale, ma non è il caso, adesso, di entrare in paranoia. Stai bevendo o fumando o mangiando troppo, ma non ci pensare adesso, domani è un altro giorno. Non è mai quel tempo in cui ci si può fermare a guardare in faccia qualcosa o qualcuno, a guardare negli occhi se stessi. Non c’è mai un momento adatto per prendere qualcuno per mano, o per le spalle, scuoterlo e gridare: “SVEGLIATI! E’ADESSO, IL MOMENTO!”.

Non è più il tempo di quel folle che si aggira per il mercato e annuncia a gran voce: “Dio è morto!”. Perché il folle non verrebbe neppure ascoltato. Perché Dio è morto da troppo tempo ormai, ed è sepolto. E su questo, come su tutto il resto, tutto ciò che è spiacevole ed imbarazzante, è meglio non soffermarsi troppo.
Non ci soffermiamo su un sacco di cose, che fanno invece parte del nostro mondo. Ignoriamo una quantità incredibile di informazioni a livello storico, geografico, culturale e politico, ed è una scelta motivata. Ignoriamo nazioni intere, persino genocidi, se non riguardano le nazioni di cui ci hanno parlato a scuola o all’università.
-L’ignoranza non è una colpa- dissi un giorno, riferendomi al fatto che una mia ex collega dell’Uzbekistan non conoscesse l’esistenza storica dell’Olocausto.
-Certo che lo è. Forse non lo è fino ai 18 anni, ma quando si è adulti, non conoscere diventa una scelta- mi rispose un’amica.
Aveva ragione. Tuttavia, ci sono certe cose che non è facile sapere, per chi vive chiuso all’interno di una realtà che nasconde una visione più ampia dell’insieme degli accadimenti presenti e passati. Ci sono cose che non è facile sapere per chi ha frequentato la scuola dell’obbligo in un determinato luogo del globo terrestre- dove si predilige un certo programma didattico, dove si studiano in maniera più approfondita soltanto le storie di certi Paesi, “quelli che contano”.
-L’Occidente- andava ripetendo il mio professore di Filosofia- è impregnato di una patina culturale che influenza la mentalità, i pensieri, il linguaggio e l’informazione. Noi non possiamo prescinderne, in quanto siamo nati in queste terre e siamo stati indottrinati di questa visione del mondo. Il nostro substrato culturale è inalienabile, se non tramite una profonda violenza contro il proprio passato e una determinata ed efferata volontà di trascendersi.
E’ anche per questa ragione, che ho sempre trovato affascinanti le mie trasferte verso Est. Le ho sempre considerate una necessità di andare al di là del sistema culturale in cui sono cresciuta e che mi influenza.
Alla luce di svariati viaggi con lunghe permanenze in Russia ed Ucraina, posso dire che spostarsi già solo di quei pochi km ad est apre un nuovo tipo di prospettiva. Apre uno scorcio su mentalità che solo apparentemente sembrano simili alla nostra. Questi Paesi mi hanno accolto, accarezzato o dato calci; spesso mi hanno fatto ridimensionare l’idea che avevo di loro. Mi sono scagliata contro le loro rigidità burocratiche- prima con l’ostinazione di chi non vuol trovar loro alcun difetto, con l’entusiasmo di chi è un neofita della loro affascinante lingua, poi con la rabbia e l’insofferenza di chi ne resta irrimediabilmente deluso. Lavorare in Russia per gli europei è difficile, è un grosso salto. Le e-mail non sono ancora un metodo di comunicazione lavorativa ritenuto utile (le aziende controllano la posta elettronica una volta ogni 2-3 giorni se si è fortunati, e quando rispondono, se lo fanno, di certo non conoscono l’uso del tasto “rispondi a tutti”). La parola data, orale o persino scritta, non ha un grande valore. Sembra che ovunque viga la regola del: ci sono regole che vanno rispettate in modo ciecamente rigido, ma tutto ciò dipende da chi hai di fronte. E’ come costruire ogni giorno, a poco a poco, un muro di certezze, di proibizioni, di procedure, e poi vederlo di continuo sfaldarsi a seconda dell’inserviente/operatore/direttore che si ha di fronte- a seconda del suo umore, del suo tornaconto personale, della sua apertura mentale. Dopo alcuni mesi, diventa straziante lottare per risparmiare qualche rublo alla mensa, perché secondo la signora del giorno prima il piatto di sole patate e riso può costare 100 rubli, mentre il suo collega il giorno dopo sostiene che “qualunque cosa tu prenda, costa 300 rubli”. Dopo qualche tempo, alla rabbia subentra la rassegnazione. Subentra la saggezza di constatare che ogni popolazione ha la sua forma mentis, le sue idiosincrasie, e che- al di là del fatto che sia sciocco in ogni caso generalizzare a tal punto- la Russia ha il peso della sua storia alle spalle, della chiusura culturale durante il Comunismo e poi dell’improvvisa apertura al capitalismo dagli anni Novanta. La Russia, per la stragrande maggioranza, è avida, materialista, grezza e piuttosto ottusa. Se l’Ucraina ha l’attenuante della miseria, che rende patetica e disperata ogni lotta alla grivna di padroni di bilocali che sperano di diventar ricchi ingannando qualche turista, la Russia commuove assai meno, perché delle disparità economiche tra oligarchi e ceto medio ha fatto una bandiera. Eppure la miseria s’insidia dietro ogni angolo, in ogni periferia, in ogni piccola città della Siberia, in ogni scalcinata baracca del Caucaso. È una miseria cieca perché non chiede aiuto né comprensione, perché non è aperta a diventare ricchezza (sto parlando a livello umano e interiore, non certo soltanto economico).

Lo ammetto, parlo da disillusa e idealista. La Russia che sognavo era quella dei romanzi ottocenteschi che ho letto. Era quella Russia melanconica, profonda e terribile, quella Russia grande per la sua follia. Era la Russia che ancora traspare da certe cattedrali o certe pièce, da certi discorsi di giovani o di professori. E’ la Russia che mi è apparsa, impersonata da un vecchio, un giorno a San Pietroburgo. Il vecchio stava seduto su un gradino, lungo il sentiero accanto alla Cattedrale di San Nicola. Aveva lo sguardo, terribile e stralunato, di certi personaggi dei dipinti di Repin. Fissava me, fissava il mondo e non fissava niente.  Il suo sguardo stupito e rabbioso cercava di non pensare, ma non vi riusciva; conteneva la pazzia della disperazione, della disillusione, del sopravvivere. Era un vecchio pazzo in un mondo pazzo, sapeva ogni cosa e forse non sapeva nulla, non pensava a niente, se non di aver vissuto invano e di stenti- o forse pensando proprio a questo, comunicava “l’indicibile”. Quel vecchio era la Russia! Era proprio questo suo “sapere” contenuto nei suoi occhi, che mi dava un brivido dentro, perché è quando mi trovo di fronte quel volto della Russia, che sa qualcosa della sua infima grettezza come della sua straordinaria grandezza, che la riconosco. Che le due immagini- quella delle mie congetture e quella reale- vanno per un attimo, finalmente, a combaciare.

Una risposta a “NON CI PENSARE”

  1. Perché piangiamo?
    Perché l’emozione che viviamo supera i limiti di cui il nostro fisico dispone per contenerla.
    Così, di getto, quanto scrivi mi richiede violentemente una lacrima.
    Arrabbiato, ma non rassegnato, lascio che le tue parole riempiano la mia mente.
    Penso tu abbia ragione quando parli di invito al non pensiero. Agevolare una generazione ibrida, facilita il controllo rendendo la società debole, malleabile ed incapace di prendere coscienza di quello che vuole. Viviamo nell’illusione di essere liberi e padroni del nostro quotidiano quando invece, siamo tutti incanalati nei percorsi obbligati che trovi alle uscite degli autogrill sulle nostre autostrade. Dio è morto? No, questo è quanto vogliono farci credere di modo che non si abbia alcun appiglio. Di modo che non ci resti che rassegnarci ad una vita da consumatori. Qualche giorno fa ti chiesi se avessi mai letto Tolstoy e non te lo chiesi a caso.
    “Il regno di Dio è in voi” è il testo che ti propongo. Fondamentalmente dice una cosa sola: tutti pensano di cambiare il mondo, nessuno pensa di cambiare se stesso.
    Per me la chiave di volta sta proprio qui, e se la metto in atto ecco che l’anziano signore non è più uno scorcio di decadenza, ma un mare di possibilità, un oceano di conoscenza a cui poter attingere.
    Credo che la Russia di cui tu parli sia ancora lì da qualche parte, per chi vuole trovarla. Sono le sensibilità percettive ad essere cambiate. Per questo non è più possibile generalizzare. La generalizzazione è ciò che giustifica il non pensiero.
    Non c’è nulla da difendere, ma nemmeno da condannare. Semplicemente, credo sia tempo di ripartire da noi stessi.

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