Solzhenitsyn, la malattia e il senso della vita

“Divisione cancro” (“Раковый корпус”), di Solzhenitsyn, preferirei chiamarlo “Reparto cancro”, o “Palazzina cancro”, come si usa adesso, perché di questo si tratta: un romanzo ambientato interamente in un reparto ospedaliero in Uzbekistan destinato ai malati oncologici negli anni Cinquanta. Argomento allegrissimo, direte voi, eppure la maestria del grande scrittore russo è proprio quella di riuscire a parlare dell’Innominato, indicibile male del secolo (che sarebbe più corretto definire “male del millennio”, visto che la sua incidenza e popolarità sono ahimè cresciute negli ultimi decenni) senza troppi fronzoli o drammi, rendendolo in questo modo umano, vicino alla vita di tutti noi, accettabile. La malattia solitamente è un tabù che si cerca di allontanare dalla propria quotidianità, i pazienti sono nettamente separati dai sani, fisicamente e psicologicamente, in un microcosmo analogo; eppure essa è parte integrante della vita umana e del suo lato disgraziato, quello contro cui si può solo porre un rimedio palliativo, un placebo d’illusioni e di cure mai definitive.

Quello di Solzhenitsyn è un indiscusso capolavoro, “russo”, fino alla sua più intima essenza. Lo è nella consueta attenzione ai tipi umani e allo spirito del tempo, nell’attenzione al tema del senso della vita, nel suo abbracciare in maniera dettagliata e vasta un’idea di completezza, di universalità. Lo è per il dignitoso contegno, drammatico ma composto, con cui illustra le sensazioni dei malati, la sofferenza come parte integrante della macchina dell’esistenza, in continuo rinnovamento tra nascite e morti. Solzhenitsyn in 700 pagine non descrive soltanto il microcosmo ospedaliero e il rapporto medico-paziente, ma tratteggia un’epoca, una mentalità, un Paese. Siamo in Unione Sovietica, appena dopo la morte di Stalin, e le vicende dei veri eroi della storia, pazienti e medici, nei loro rapporti e nelle loro interazioni, rispecchiano le perplessità di un regime incontestabile ma pieno di falle. Non a caso l’opera, come le più note (a mio avviso, non migliori) Una giornata di Ivan Denisovich e Arcipelago Gulag, fu ampiamente osteggiata dal governo dell’epoca, la stampa fu fermata, lo scrittore fu alla fine costretto a trasferirsi in America. Nella pluralità dei diversi personaggi dell’ospedale, che si abbandonano a discussioni sul regime staliniano e sulla vita, si riflettono i pensieri e la critica dello scrittore.

C’è il giovanissimo Demka che perde una gamba e il suo più grande sogno è andare allo zoo; il giovane Vadim, cui hanno dato pochi mesi di vita, promettente scienziato che centellina il tempo, i cui anni si contraggono in settimane e giorni, deluso dalla triste sorte di morire giovane senza portare a termine i suoi obiettivi; il burocrate Rusanov, disgustato dalla gente, che non ritiene al suo livello, con cui si è suo malgrado trovato a dividere la camerata, spiazzato dalla de-stalinizzazione e le sue conseguenze sulla sua posizione lavorativa, incapace di accettare la nuova situazione politica, eppure costretto ad adattarvisi e ad addolcirsi;  la dottoressa Vera Gangart, ottima diagnosta, rimasta sola dopo la morte del suo unico amore giovanile in guerra, risoluta nell’essergli fedele in eterno; il buon Sulubin, destinato ad un’operazione difficile, che d’improvviso tira le somme della sua vita, passata a piegarsi e rinnegare ciò in cui credeva per non essere perseguitato dal regime, a ricercare la felicità “bruciando libri che contenevano la verità”, ma scoprendo che “la felicità è un miraggio”; l’irriducibile Calij, cui hanno tolto un pezzo di stomaco ma che non si perde mai d’animo, minimizzando la propria drammatica condizione e insegnando ai vicini di letto e di sventura a giocare a poker.

Il padiglione cancro è il luogo dei sogni infranti e vacillanti di chi all’improvviso si trova a confronto con la loro inevitabile fine, la fine di tutto. Ognuno dei personaggi, posto suo malgrado a confronto con la morte, cerca di reagire e trovare il senso della propria esistenza, chi nelle donne, chi nella scienza, chi nell’utopia, teorizzando un “socialismo etico”, ma è nel disertore Oleg Kostoglotov che troviamo il vero eroe- protagonista. Doppiamente esiliato, prima come soldato, poi mandato in al confino “perpetuo” dal regime, s’aggira tra le corsie con una buffa vestaglia, il cinturone e gli stivali, la grossa cicatrice sul viso a testimoniare il suo vissuto. Reietto tra i reietti, dissacrante e donnaiolo, è il lui che possiamo vedere la voce della coscienza di Solzhenitsyn e il simbolo del dramma dell’esilio. Soprannominato dispregiativamente “lo Scroccone” dall’ottuso burocrate Rusanov, Kostoglotov è in realtà tutt’altro che rozzo e sciocco: s’interessa di medicina e tormenta le dottoresse di domande, ha una filosofia di vita concreta ma non priva d’acume. Sogna di ritornare nel suo luogo d’esilio che ormai sente come casa propria, un villaggio kazako, e si culla tra i ricordi dei “fiori dall’odore intenso e inconfondibile, come quello di una donna che abbia superato l’estremo limite del desiderio e si sia profumata senza ritegno”. Della sua più grande passione sente la mancanza come un prigioniero, tanto più che le pastiglie che dovrà prendere gli inibiranno il testosterone fino a lasciargli solo la libido, sicché le continue visite e attenzioni ora della giovane infermiera Zoya, ora della dottoressa Gangart, raffinata come un’antilope dagli occhi color “caffè chiaro”, sono per Kostoglotov un dolce supplizio di Tantalo. Nelle pagine migliori del romanzo, nel suo epilogo, Oleg si ritrova, finalmente, libero: libero dal giogo dell’ospedale, seppure solo per un tempo brevissimo, prima che il tumore se lo porti via per sempre. Finalmente può camminare per le strade, abbandonare forse il confino per tornare in Russia e poter piangere vedendo la Cattedrale di Sant’Isacco di Leningrado. Come un bambino o un evaso, Oleg vaga alla riscoperta delle piccole sensazioni che la vita offre: l’odore della carne alla griglia degli shashlyk (spiedini), un gelato nel bicchiere di carta e un sorso di vino, la folla e il lusso insensato dei grandi magazzini, lo zoo, per tenere fede al sogno di Demka, l’orrore degli animali pasciuti in cattività, la sua irriconoscibile immagine allo specchio, assai più debole e logora di quanto non si aspettasse. E in quel turbinio di sensazioni di felicità, paura ed estraniazione della nuova breve vita che gli si prospetta (o meglio, il pezzo di una nuova vita, “un sovrappiù”, come la razione extra di pane), il miraggio più grande di quel mondo nuovo è l’offerta lusinghiera di pernottare dalla dottoressa Vera Gangart, chiamata affettuosamente Vega, il sogno di concretizzare un amore finora del tutto platonico. Ma no, il sogno deve restare tale, è troppo grande, troppo marcio per essere tramutato in greve, impossibile realtà, la sua vita è troppo dispiegata, corrosa, guasta, non può permettersi di rovinare anche quella della dottoressa. Così il reduce, bestia allo zoo ma “esposta gratis”, morituro (in russo: dokhodyaga, доходяга, quelli sfiniti, in punto di morte, che nei lager russi ormai erano considerati “andati”) scopre che forse la felicità è sdraiarsi senza sentire più il dolore del tumore, è camminare, correre. Ed è in questa delicatezza descrittiva che Solzhenitsyn sigilla la sua opera con il genio dell’arte, è nell’ultima frase del romanzo che tocca il punto più alto che ne rivela il senso: il pensiero che, ancor peggiore dell’insensata disgrazia della malattia, dell’avversità della sorte e di ciò che non si può decidere, l’ombra più oscura della vita è l’insensatezza, ancor più grande, della crudeltà umana.

Dipinto di Savrasov, “I corvi sono tornati”, (Грачи прилетели), citato nel romanzo di Solzhenitsyn