Un pensiero per l’Ucraina: non è tutto risolto

Una cosa assurda delle guerre è che c’è un picco in cui se ne parla e poi piombano di colpo nell’oblio. Diventano routine, entrano in una fase di stallo e inspiegabilmente spariscono dalle menti e dalle parole di chi non ne è colpito in prima persona. Così sta accadendo con l’Ucraina. Siamo molto lontani dalla fine della guerra e un paio di giorni fa si sono verificati tumulti nella parte occidentale, ma ormai è un argomento di secondo piano. Ci siamo abituati all’idea, e l’abitudine in un certo senso diventa concessione e indifferenza. Per questo ne voglio parlare ancora. Sappiamo che laggiù non si è concluso niente, gli scontri continuano e non sappiamo neppure più cosa aspettarci. Sappiamo che siamo, ahimè, molto lontani da un accordo definitivo. Sappiamo che l’Ucraina è stroncata da debiti, tutto è diventato carissimo e nessuno ha più soldi per viverci in maniera decorosa.

Ok, sicuramente sono “di parte”. Trovo sciocco, sprovveduto e in parte ingiustificabile parlare soltanto della situazione Ucraina perché ci ho vissuto e lavorato per mesi; perché conosco molte persone che vivono lì e ora sono senza casa, lavoro, alcuni hanno perso amici, parenti, mariti. Che sono stati costretti a trasferirsi in città meno pericolose di quelle del Donbass, che neppure riescono a parlare di quello che succede nella loro terra perché è troppo doloroso. Certo, ci sono guerre in atto in molte altre parti del mondo. Ci sono scempi, orrori, barbarie di ogni tipo, e sempre ci saranno. Parlarne serve a poco, parlare di tutto non è possibile, tacere è spesso molto saggio. Detesto parlare di queste cose perché sinceramente non ne capisco un granché. Non sono esperta di storia, né di politica internazionale, né ho qualunque qualifica che mi permetta di esprimere pensieri illuminanti al riguardo. Il mio è solo uno sfogo, tale vuole restare e non pretende d’essere capito né condiviso. Lo scrivo per un’unica ragione: è l’unico modo che conosco per esprimere il mio dolore e ricordare quello che è successo e che continua a succedere.

Non esiste altro modo di essere toccati dall’orrore del mondo se non quello di vederlo,  provarlo su di sé, immaginarlo su persone di cui si ricorda il volto, la voce. L’essere umano è in grado di provare empatia soltanto se i suoi sensi sono messi di fronte ad immagini, ricordi. Aver calpestato il suolo dove sono in corso sparatorie, operazioni militari, bombardamenti anche su civili non rende più grave un accadimento. Lo rende semplicemente più reale per chi lo può soltanto leggere su un quotidiano (di parte). E’ come ricevere una scossa e poter assumere su di sé l’orrore: ripercorrere con la mente quelle strade grigie, vedere le vie con i cortili interni e i balconi verandati di Donetsk, la neve ai lati delle strade di marzo, sporca e secca come i baffi usati di un vecchio Babbo Natale; chiudere gli occhi e scorgere i volti degli abitanti, i loro lineamenti duri, gli zigomi larghi, gli occhi leggermente a mandorla, certi azzurri come  pepite d’acqua, le loro pelli diafane o abbronzate, le loro voci morbide. Sentire in bocca il sapore dei “konfety”, i cioccolatini che paiono caramelle, e poi spingersi in periferia, nelle fabbriche, tra i casermoni, l’erba, gli stagni. Rivedere tutto ciò e pensare che ora è distrutto. Pensare che ci sono ragazzi che ogni giorno cercano ansiosamente nelle liste dei prigionieri o dei caduti i loro parenti, amici, fratelli; gente che non può vedere i propri figli da anni, per paura d’essere arruolati nell’esercito e perderli per sempre. Gente cui non frega nulla se il Donbass diverrà indipendente o resterà in Ucraina: vogliono solo salvarsi la pelle e vivere una vita tranquilla, come lo vorrebbe chiunque. Leggere di continuo sui quotidiani italiani laconici ed irritanti trafiletti sull’Ucraina, posti quasi sempre in secondo piano o comunque dopo le notizie che contano, quelle dei “morti di serie A”. I dossier hanno esibito per mesi e mesi autobus a Donetsk che saltavano in aria, i corpi delle persone stesi per strada, riversi a testa in giù, ignorati dai passanti (ormai abituati allo scempio quotidiano) ma non dalle telecamere, seduti sui sedili senza vita; la gente insultata e presa a pugni perché esibisce una bandiera, i soldati linciati dalla folla: quelle stesse persone che vedevo di fianco a me in birreria, o tra il pubblico allo stadio, sotto casa al 24 ore. Si provi a immaginare, queste persone. Si provi ad immaginare che ciò accada fuori dalla propria casa.

Non c’è una fazione gentile e l’altra sanguinaria. Parlare di “buon guerriero” è al pari di parlare delle ridicole “bombe intelligenti” americane. E’deprimente constatare che c’è chi difende i soldati di uno o dell’altro schieramento, chi dice che gli ucraini di Kiev sono “fascisti” o “nazisti”, chi dice che i separatisti russi sono carogne. Chi si scandalizza perché saltano in aria gli ospedali o vengono abbattuti aerei di linea (per quanto ciò ovviamente sia ingiustificabile), chi litiga per dare la colpa all’uno o all’altro schieramento, chi demonizza l’Ucraina schiava dell’America e chi la Russia di Putin, paragonato ad un guerrafondaio insensibile ed imperialista. Che cosa pretendete? Questa è la guerra. Non esistono al suo interno soldati buoni, eserciti magnanimi, rivoluzionari pacifici. Non esistono compromessi. Chi imbraccia un fucile e va a combattere, vuoi perché obbligato dal servizio di leva (il vero dramma che colpisce migliaia di ucraini, e questa in effetti è un’altra storia) vuoi perché pagato profumatamente, vuoi perché invasato da idee patriottiche o da chissà quale altro ideale, non si fa certo scrupoli quando si trova davanti i “nemici”. Mors tua, vita mea. Chi va a combattere preme il grilletto, lancia una granata, perché così deve fare, perché così vuole fare, perché la sua pelle vale più di quella di chiunque altro. Ecce homo. Chi combatte contribuisce all’annientamento del genere umano. Esistono migliaia di giustificazioni che si possono trovare a questa situazione, ma la verità è che se una cosa simile accadesse in Italia, non so quanti oggi sarebbero disposti, se non sotto coercizione o in cambio di laute ricompense economiche, a rischiare la propria vita per “difendere la patria”. E’questo che mi fa maggiormente riflettere. L'”italiano medio” è per lo più lontano da questo genere di mentalità- che sia una fortuna o meno, non è ora oggetto d’indagine. Ci scandalizziamo tanto per certi arabi, per il loro fanatismo e attaccamento alle tradizioni, per la loro crudeltà, ma gli americani e gli ucraini non sono tanto diversi- l’affermazione è neutrale, non vuole sottintendere un messaggio critico né a sostegno di ciò. Tra di loro vi sono molte persone che si arruolano volontariamente nell’esercito, con famiglie, con progetti, in età tutt’altro che avanzata, che intendono battersi per un ideale. Sono persone che, tra un colpo di mortaio qui e un altro là, fanno saltare in aria bambini che giocano nel cortile, vecchi che stanno camminando per strada. Ops. Certo, magari non tutti sono così spietati. Certo, ci sono i soldati che hanno un’anima, c’è chi combatte e crede unicamente di difendersi, chi cerca di evitare donne e bambini e civili, ma ha pur sempre un’arma in mano. Quale valore può essere più forte della vita? A quanto pare, moltissime cose. A quanto pare, andare al fronte, finire disintegrati da una granata, buttati nelle fosse comuni contrassegnati da un numero non è poi un rischio così terribile, se si pensa che si sta combattendo per il proprio paese, la propria lingua, il territorio, per ciò in cui si crede. Pensando a tutto questo, il nichilismo non appare più tanto distruttivo.

Che cos’è un eroe oggi? Siamo davvero sicuri che si possa ancora definire eroe una persona che crede tanto ciecamente in un valore, qualunque esso sia, da essere disposto ad uccidere se stesso e il prossimo? Non resta da sperare che in futuro i nuovi eroi siano coloro che si occupano di scienza e conoscenza, di aiutare, scoprire, imparare, di conservare la specie invece che distruggerla. Sebbene anche questo, a giudicare da ciò che accade, possa non essere necessariamente annoverato come un intento positivo.

Donetsk, mia cara Ucraina, per quello che può valere, io non ti ho dimenticato e continuo a sperare nella fine di questo orrore. 

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