Eppure, Sochi resta lì dov’era, dove è sempre stata. Sochi dopo le Olimpiadi diviene Sochi prima delle Olimpiadi. Come ciò che c’è prima della vita, e dopo la vita.
A Sochi non si vede spesso la neve, a Sochi ci sono le palme, i giardini botanici, la dacia di Stalin, e poco altro. A Sochi puoi vedere la Georgia dalla finestra.
A Sochi non sai più dove ti trovi, ma forse non è questo il tuo scopo. Si parla russo, qualcosa ricorda vagamente la Russia; molte cose hanno il sapore del Caucaso, della Georgia e dell’Armenia.
Si possono notare di edifici nuovi, strade a più corsie e un treno moderno, ma restano residui di ciò che c’era prima delle Olimpiadi: case basse sul mare, piccoli bar dalle insegne al neon dove la griglia resta accesa per tutta la notte, e riempie di fumo le stradine. Certi sobborghi, come Adler e Khudepsta, sono piccoli villaggi la cui struttura non ricorda nulla di già visto. A volte pare di essere al mare, a volte in montagna, a volte in mezzo alle baracche di certe terre del sud America, a volte in un mondo a parte, fatto di autobus con slogan di SOCHI 2014 e di grandi hotel, la cui costruzione non finirà mai.
Ci si imbatte in mercati di spezie, in negozi con il merchandising olimpico, in costosi ristoranti, in chiassosi karaoke tra balli caucasici e tonnellate di carne. Certe volte ci si imbatte nel fragore delle onde o nella striscia di montagne all’orizzonte, con qualche bianco tocco di neve sulle cime.
La passeggiata sul mare di Sochi ricorda qualcosa di arcano, di sepolto nella propria mente. Qualcosa che non si riesce a dire, perché forse ci pare d’averlo già vissuto, e invece è la prima volta. Camminando, alla propria destra si incontra una schiera di ristoranti e di pupazzi da vincere sparando ai barattoli, e tutto ciò ha un’atmosfera da vecchia riviera, un fascino anni Ottanta.
Alla propria sinistra il mare d’inverno, barricato dalla corta spiaggia di sassi e dal parapetto della passeggiata, è pallido e grigio come il sole. Non è sbalorditivo. E’ un semplice mare, come ne abbiamo visti tante volte in Italia o nel resto del mondo. Ha una sabbia di sassi, un profumo salmastro non troppo forte. Eppure, ha qualcosa di unico: sembra di sentire il fatto che è prezioso quanto un diamante, perché non esiste niente del genere in nessun’altra parte della Russia; allora diventa un’icona, un totem attorno al quale gli abitanti ergono i loro sogni e i loro feticci. Agghindano il mare di una statua di Nettuno, di ristoranti di pesce, di un rispetto e un calore contro cui rimbalza lo scetticismo dello straniero.
Sochi, a guardarla bene, ha qualcosa che commuove. Sarà perché le signore con cappelli di pelliccia che bevono il caffè sedute ai tavolini all’aperto hanno un’aria più antica dei loro abiti, e sai che non c’è altro luogo al mondo dove potresti incontrarle. Fanno parte del paesaggio, come i gabbiani e i velieri. Sarà forse perché quel vecchio, che suona il violino con una base musicale registrata e un cane nero sdraiato davanti, non sembra mendicare per necessità. Il suo volto è disteso. Pare che il mare lo rinfranchi e che suoni perché ha ancora voglia di suonare. Per un attimo, nella sua musica pare di afferrare l’anima di Sochi; e quando s’è sul punto di comprendere cosa fosse Sochi prima dell’onda olimpica, il vecchio l’ha già richiusa nella custodia del violino, tra i copechi e le conchiglie.