Orrore e stupore. Aylan e tutti gli altri

Piccolo, indifeso, riverso per terra. Una morte delicata, che non mostra il volto ma che si intuisce dal primo sguardo. Un’immagine terribile, raggelante, come lo è ogni morte, ma in particolare quella dei bambini. Di bambini come Aylan, strappati al gioco e alla scoperta della vita prima di poter realizzare tutta la sua complessità, ce ne sono tantissimi in ogni parte del mondo, e quando non è il nemico muto di nome incidente o malattia a stroncarli, ma è la stupidità umana, la questione è ancora più irritante. Molti di loro muoiono stroncati da mine o da mali interni e nessuna foto li rende famosi- il che non è necessariamente un male, anzi. Aylan è invece entrato, suo malgrado, nella storia delle immagini forti che rappresentano l’orrore secondo l’Occidente, come la famosa foto del bambino nudo in Vietnam. Era del tutto ovvio che la fotografia di Aylan sarebbe stata eletta dalla stampa simbolo del dramma dell’immigrazione: si presta perfettamente all’enfasi mediatica, grazie al potere immenso dell’immagine e al suo carattere per natura diretto. Un’immagine è istantanea perché non implica tempo per coglierla, non si memorizza, non si gusta, non si scorre né si dispiega, ci si getta negli occhi e nel cuore come un colpo violento e totale.

Non mi voglio addentrare sulla spinosa questione se sia giusto o sbagliato buttare in faccia al mondo un’immagine così cruda e personale- perché la morte è un atto squisitamente privato, (“quando si muore si muore soli”, per citare un grande poeta e cantautore) che suo malgrado diviene pubblico, e forse proprio in questo scempio per cui un corpo inerte non è più padrone del suo destino sta uno dei suoi aspetti più penosi.

Al tempo dei social network, però, la diffusione di un’immagine è ancora più globale e presenta nuovi aspetti. Non è più passiva ma interattiva. Non viene guardata facoltativamente e concepita come un “avvento” deciso dall’alto, racchiuso all’interno di un giornale che si può decidere se comprare o no. È una realtà onnipresente della quale si viene investiti contro la propria volontà, basta accendere il pc e buttarsi nella caotica cloaca del chiacchiericcio “social”. È uno strumento ripetibile all’infinito, commentabile, condivisibile. Io, uomo comune, posso farla mia, salvarla sul desktop e ripubblicarla sui social network assieme al mio (non richiesto) parere. Il risultato è che il dramma privato di una famiglia che è in fuga dalla guerra si riduce argomento da salotto e da tastiera, non gli si dà più enfasi e decoro, entra nel banale e nel quotidiano.

Di tutte le miriadi di parole spese su Aylan nella portineria del web, una sola mi ha colpito. Era una citazione bella, delicata e a mio avviso particolarmente azzeccata al riguardo. E’ stato scomodato il grande Fedor Dostoevskij, e chi meglio di lui, in effetti, potrebbe comprendere i tormenti dell’animo umano?

“… E mentre camminava per le strade e vedeva in ogni volto i segni di una fatica inutile, o alzava gli occhi verso i tetti delle case, su al cielo, per capire se c’era un senso, egli pareva trovarlo, e si rasserenava. Ma solo a una domanda, che lo investiva a ondate regolari con affanno, il principe Mishkin non sapeva rispondere: Perchè, Signore, i bambini muoiono?”

E forse è proprio questo che ci vuole. L’ingenuità, la meraviglia, lo stupore del principe Mishkin di fronte all’orrore del mondo. Lo sguardo naif di un “idiota”, che idiota non è affatto, ma incarna uno spirito vergine, buono, senza peccato, che è ancora in grado di farsi domande, rimettendo così in discussione dalle fondamenta ciò che si assume come ovvio.

Perché l’orrore non può e non deve diventare un’abitudine.

Forse è con quello sguardo che dovremmo guardare a tragedie come queste, ed essere ancora capaci di domandarcene il perché, sapendo che non v’è risposta alcuna, ma che la forza e il senso risiedono nella domanda. Senza frivoli né doverosi commenti pubblici, dichiarazioni da piazza, lagne e discorsi enfatici, nel privato della propria stanza, con il proprio calamaio e pennino o Mac che dir si voglia, dovremmo comportarci da “principi di un romanzo”: dedicare ad Aylan, suo fratello e a tutti coloro che non hanno potuto scegliere di continuare a vivere il nostro sgomento stupore. Lo stupore del silenzio.