Parlare o tacere ai tempi del coronavirus

Il coronavirus sta tirando fuori il peggio di noi. I social network non hanno mai pullulato così tanto di opinioni infondate, credenze ridicole, sfoghi dettati dalla rabbia, dalla noia o dalla paranoia- o da tutte queste emozioni insieme. Credo sia normale: quando situazioni di estrema difficoltà investono non una città, non una nazione, ma il mondo intero senza distinzioni, l’essere umano, per natura, tende ad andare in panico, accusare il prossimo, deprimersi, criticare, sparare idiozie, abbandonarsi a teorie complottistiche o- peggio ancora- mistiche.

Chiudi l’uomo, o il topo, in gabbia, e darà di matto. Siamo ratti chiusi in gabbiette (confortevoli, per carità, perché non c’è posto migliore della propria casa, persino di 300 metri quadri per i più fortunati; ma un’intera vita rinchiusi in 300 metri quadri, all’homo sapiens sapiens, suona comunque come una prigione), siamo piccole bombe ad orologeria pronte ad esplodere. La psicosi collettiva, di questo passo, non tarderà ad arrivare. Curioso, ma non sorprendente, che proprio i carcerati siano insorti, coloro che da anni vivono in una situazione analoga, ma che per primi sono stati danneggiati dal virus: il loro unico contatto con l’esterno è stato tagliato. Come loro, ci prendiamo adesso la nostra ora d’aria per portare a passeggio il cane, comprarci l’aspirina in farmacia, fare la spesa, e per il resto cantiamo il nostro Folsom Prison Blues dalla nostra cella arredata Ikea, ma non sentiamo neppure più il rumore del treno, perché non passa più nessun rapido per le nostre città fantasma, e allora ci resta solo Netflix. E dai balconi o dalle finestre ci affacciamo come voyeurs vecchio stile, che riscoprono il piacere di guardare il mondo reale e non il suo profilo avatar sullo schermo, come gli abitanti di quei villaggi depredati o post-guerra atomica dei film di fantascienza distopica, a fissare gli inquietanti marziani che deambulano impuniti, velati dal nuovo burka bianco, per le strade vuote. Pensavamo che queste cose esistessero solo nei film, e invece l’impensabile è accaduto: provviste e scatolame, maschere a gas, città fantasma ma con i lumicini tutti accesi delle finestre come mille occhi silenti che si osservano l’un l’altro, tutti in attesa. Tutti quieti. Per ora.

Togli all’uomo la sua libertà e impazzirà, ma se togli all’uomo il pane, arriverà ad uccidere pur di salvarsi. Semplice istinto di sopravvivenza. Mors tua, vita mea. Non commuoviamoci per la solidarietà delle bandiere italiane appese ai balconi e per l’osservanza del divieto di circolazione o di stare ad un paio di metri di distanza: il motore immobile resta sempre e solo salvare la propria pellaccia, non certo quella di non contagiare l’altrui persona- ed è giusto che sia così, è una legge naturale. Resta solo da sperare che il cibo continui ad essere disponibile (e non parlo delle tortine Pan di Stelle o del lievito per fare la famosa pizza in casa, ma di qualunque alimento di prima necessità), altrimenti ne vedremo delle brutte. Resta soprattutto da sperare che le persone siano nella condizione economica di potersi comprare il cibo- cosa non scontata, dato l’impatto catastrofico sull’economia.

Di chi possiamo fidarci? Saranno corrette ed efficaci le misure governative imposte (davvero, per chiedersela alla Leibniz, questo è il “migliore dei mondi possibili”, cioè degli scenari di lotta alla pandemia?) Da dove arriva il virus, troveranno una cura e un vaccino? Potrà ripresentarsi? Non è facile orientarsi, soprattutto nel nostro Paese, dove i tamponi, ahimè, vengono fatti ad un numero bassissimo di persone e dunque avere un quadro completo della diffusione e della mortalità del virus risulta difficile, se non impossibile. Siamo nelle mani dell’informazione giornalistica, parziale, distorta e incompleta per natura, ma che rappresenta l’unico modo in cui ci possiamo informare, e da questo circolo vizioso non si esce se non con un filo di razionalità e fiducia. L’unico strumento di orientamento che abbiamo è quello di setacciare scrupolosamente la miriade di articoli in cui ci imbattiamo, e l’assunto che più articoli si leggono, più si riesca ad avere un quadro obiettivo della situazione. Il presupposto è dare un briciolo di fiducia al nostro sistema, ma soprattutto ai medici che lavorano senza sosta per noi, e, diciamoci la verità, anche un po’ al culo (altrimenti detto, eufemisticamente, fortuna). Non fidarsi è meglio- non sto sostenendo si debba concordare con ogni misura intrapresa a livello governativo- tuttavia il sillogismo “piove, governo ladro”- che in questo caso è divenuto: “c’è il contagio, governo ladro” (che può avere un fondo di verità, se pensiamo agli errori, presenti e passati, dei politici riguardanti lo stanziamento di fondi destinati alla sanità) non può e non dev’essere il motto di questa lotta al coronavirus- anche perché, si sa, lamentarsi e basta è una soluzione grossolana e poco costruttiva. Nessuno si aspettava una cosa del genere, nessuno era pronto a fronteggiarla, quasi tutti inizialmente l’abbiamo sottovalutata pensando che fosse una banale influenza. Come con Chiara Ferragni, che dicevamo fosse ” solo una banale influencer”, ed è divenuta una delle donne più ricche e, appunto, influenti, del mondo.

Guardare nel giardino del vicino inglese, tedesco o cinese per criticare le scelte dei premier, trovare capri espiatori e bersagli facili è divenuto un passatempo irrinunciabile dell’uomo medio, dell’uomo social, l’uomo hater. Ci immaginiamo orde di cinesi masticare orgogliosamente carne di pipistrello in tuguri umidi e laidi e sorriderci con i pezzi di carne di Batman nei denti e lì, subdola, quella ributtante, microscopica sfera a forma di puntaspilli, con l’espressione arcigna e il nasone, entrare nell’organismo e dare il via a tutto, come in una puntata di Esplorando il corpo umanoIl paziente zero diventa l’untore per eccellenza nell’immaginario collettivo, il simbolo dell’approdo della peste nel nostro piccolo orto, il titolo perfetto per un film di spionaggio. Si aggira sotto copertura, con la maschera e l’aspetto che ognuno di noi vuole dargli: che senso ha sapere di che nazionalità sia? Ormai il paziente zero, in fondo, ci è diventato quasi simpatico, perché ha agito inconsapevolmente. Il nuovo, vero nemico è invece il conscio trasgressore della legge, il furbacchione, il fraudolento, rappresentato dall’uomo che corre: il runner– corre… dei rischi, sì, quello di essere linciato, in primo luogo. Linciato dagli stessi che due giorni prima non pagavano il biglietto del tram, cercavano in ogni modo di raggirare le tasse, guidavano alticci ma che improvvisamente sono diventati sbirri e controllori. Il bersaglio è il politico di turno, che mai come in questo periodo pesta qualche escremento, per dirla con una perifrasi, dice la frase di troppo, fa il pronostico sbagliato. Niente di nuovo sotto il sole- si sa che “ci sarà sempre, lo sapete, un musico, un fallito, un pio, un teorete, uno Sgarbi o un prete, a sparare cazzate”, per parafrasare Guccini.

C’è anche un nuovo assassino silenzioso, il ninja dei tempi del coronavirus: l’asintomatico. Il bastardo- sì, diciamocelo- che risulta positivo, ma che non tira neanche un colpetto di tosse in barba alla gente intubata e che contagia impunito l’anziano parente o il consorte.

Quando e come usciremo da questo virus? Chiunque se lo domanda, nessuno può rispondere. Sul quando, ci sono previsioni, ma nessuna sembra convincere fino in fondo. Sul come, un po’ dipende dal quando e con quante perdite. Sicuramente ne usciremo più poveri, più attenti e più disciplinati. Ne usciremo decimati, a livello di vittime. Ne usciremo, dunque, molto male. Mala tempora currunt… sed peiora parantur.

Un lato interessante di questa calamità globale? Il proliferare di meme, battute, barzellette, video umoristici: mai come durante una tragedia l’umorismo, spesso anche nerissimo, dà il meglio di sé ed esorcizzando e sdrammatizzando il demone del virus. Una risata non ci salverà di sicuro, ma forse può aiutarci psicologicamente a superare questo momento con un po’ di leggerezza. Ho sempre preferito la battuta alla preghiera per curare il male di vivere (gusti personali): se non altro, la risata ha effetto immediato e catartico (basti dire che ha effetto). Non fa male a nessuno, non pretende di essere veritiera, né utile, né giusta, non dà giudizi morali. Il motto di spirito, sosteneva Freud, è un’espressione dell’inconscio. E allora trovo molto più innocuo e positivo che l’inconscio collettivo si sfoghi con battute che con sbotti di odio, disperazione, frustrazione, opinioni non richieste e non fondate, informazioni errate e di parte. Trovo più dignitoso che l’essere umano, di fronte ad una calamità di cui non ha colpa e che è totalmente democratica e “gratis, come la tristezza” (cit.), si abbandoni a una risata che ad un insulto, perché solo gli ottusi si prendono sempre troppo sul serio.

Forse, ad ogni modo, il comportamento più piacevole da tenere sarebbe quello di tacere il più possibile. Parlare pubblicamente solo quando fosse strettamente necessario- proprio come uscire: con l’autocertificazione. Tacere, non postare, perché dell’opinione di Pinco Pallo sul virus, dello sfogo “strappacore” di Tizio, di vedere se Caio aveva un valido motivo per trovarsi in strada e del mood di Sempronio non importa nulla a nessuno. Tacere per il rispetto di chi ha perso i suoi cari prematuramente e per chi li perderà. Tacere e seguire le indicazioni di chi ne sa più di noi. Tacere e starci vicini, anche se a distanza. Parlare solo a quelli a cui vogliamo bene, senza farlo sapere a tutto il mondo. Al massimo, si può cantare, che fa sempre bene e non offende (se non, a volte, le orecchie dei vicini di casa!) e sperare che questo incubo finisca e senza portarci via tutto quello che abbiamo. Ed ora, per non entrare in contraddizione con quanto ho espresso (e forse l’ho già fatto), taccio anch’io, che è meglio.