La mia Ucraina

La prima cosa che vidi di Kiev fu il maidan. È una parola di origine araba che significa piazza. È curioso che la piazza abbia un nome non russo, né ucraino. Il maidan, con il con il suo obelisco bianco e oro e la sua imponente estensione, non è particolarmente bello. È un’ampia piazza che non lascia senza fiato come tante in Europa o in Russia; comunica qualcosa senza esser solenne. Fin dalla mia prima gita a Kiev, mi parve cupa. Era grande, aperta, ma buia. C’erano bancarelle che vendevano souvenir, baracchini con cibo o schede telefoniche. Comprai una custodia per il passaporto da un vecchio signore. Era una piazza ruspante con una punta di tristezza.
Quella piazza di recente si è tinta di sangue, di tritolo e di rabbia.

Ricordo le passeggiate lungo Kreshatik; l’ampio viale, i negozi, un tipico ristorante di cucina ucraina. L’ho vista tagliata dal freddo e bruciata dall’afa. I turisti accalcati a vedere un giocoliere, un porcellino d’india, un suonatore. In quelle zone del centro non si andava spesso- era un luogo da domenica, da riposo, da camminate senza un senso.
Quel viale ora è assediato dai poliziotti e coperto di cadaveri e candele.
All’hotel Ukraina prenotai alcune stanze per la dirigenza della mia azienda. L’hotel Ucraina, vecchio casermone sovietico con la moquette e le abat jour d’oro nelle camere. Un posto da turisti, puttane e nostalgici.
Quell’albergo si è trasformato in una postazione per cecchini. Evacuato, assediato, devastato dai proiettili.
La piazza maidan, proprio come le agorà del passato, è oggi il luogo dell’insofferenza del popolo, e si sta rivelando ben più pericolosa delle aspettative. Era già stata teatro di scontri durante la guerra civile del 18-19, contesa dal nazionalista Petljura, dai bolscevichi e dall’atamano Shoropadskij (come narrato ne La guardia bianca, il primo romanzo di Bulgakov). La protesta oggi esplode nel sangue, perché al diavolo Gandhi, i soldi non si ottengono con le parole. C’è chi dice che la posta in gioco è l’Europa. La posta in gioco è molto più alta e complicata. I giornali russi dipingono i manifestanti che vogliono entrare in Europa come fascisti, autori di un golpe. Ma cos’è il fascismo, e il nazionalismo oggi? C’è qualcosa di obsoleto, in queste etichette assolutiste. C’è, come sempre, qualcosa di cieco ed ottuso nelle ideologie. Tra quei manifestanti c’erano donne, adolescenti, gente dell’ovest, dove non c’è nulla da perdere perché non ci sono soldi né industrie.
Kiev urla, scoppia, muore. Kiev diviene strumento di potenze mondiali con scopi ben precisi. Divisa tra Europa e Russia, non ha scelta: cadrà comunque preda di interessi politico- economici che la schiacceranno, senza alcuna considerazione per la vita delle persone. Kiev cerca d’esser indipendente dalla Russia, ma ne è impregnata: culturalmente, architettonicamente, economicamente. Le origini delle due nazioni sono strettamente legate: la parola “russo” deriva proprio dal “rus” medievale di Kiev (forse di origine normanna), il più antico villaggio slavo organizzato, che raggiunse massima espansione intorno all’anno 1000. Dallo sfaldamento del “rus” si formarono 3 distinte etnie: ucraini, bielorussi e russi. Il loro ceppo d’origine dunque è comune e non solo: proprio Kiev fu il luogo di nascita e sviluppo della prima etnia russa. Nel corso degli anni, si è creata una spaccatura tra Ucraina dell’est e dell’ovest, di tipo economico ma anche a livello di mentalità: nelle città occidentali, dove scarseggiano le opportunità di lavoro, c’è repulsione verso i russi e si parla ucraino; gli ucraini di Kiev e della parte orientale, invece, dove c’è la ricca zona della Crimea e del Donbass, sono filo-russi: molti di loro hanno origine russa, addirittura non conoscono certi termini in ucraino. Usano la loro lingua madre solo con certe persone, o all’università, oppure- cosa paradossale- con i poliziotti- BERKUT, le aquile d’oro. Quegli stessi che ora cercano di ristabilire l’ordine con il disordine, con il fuoco- così mi dicono gli amici di Kiev, intimando di non credere in nessun modo ai giornali russi, che osannano l’operato della polizia; di contro, le televisioni russe mostrano di continuo dossier su focolai di fascismo e violenza dell’Ucraina dell’ovest. A quale propaganda credere? Già il fatto che ancora oggi si possa parlare di propaganda mediatica è decisamente allarmante.
Lasciamo per un attimo da parte la questione della Crimea, pomo della discordia, pretesto per rinnovare antiche supremazie e nuovi progetti economici.
Mettiamo momentaneamente da parte i nazionalisti, gli estremisti, i filo fascisti- che altro non sono che strumenti degli oligarchi o delle super potenze, mercenari sovvenzionati, invasati guerrafondai, o semplicemente disperati. Prendiamo ragazzi ucraini di vent’anni, esattamente come i nostri, dagli occhi vivaci e dai modi gentili; ragazzi che alla loro età sono più seri ed affidabili di gente italiana con il doppio dei loro anni. Ragazzi di Kiev, con famiglie di ceto medio- chi più, chi meno abbiente, ma tutti studenti. Hanno percorso 1500 km con le loro automobili, dono dei genitori, che trattano in maniera maniacalmente attenta perché una semplice patente ha dato loro l’occasione di un lavoro in Russia come autisti per un’azienda internazionale; ragazzi con l’I Phone e l’I Pad, che saltano di gioia a percepire il loro primo stipendio di 5000 grivne (500 euro). Ho colto nelle loro parole l’attaccamento alla loro terra, alle loro radici, e ciò non mi è parso “nazionalismo”, ma qualcosa che non è facile da comprendere per noi italiani, la cui unica patria è la partita di calcio, la birra al sabato sera, la casa con il cane e il giardino. Dicono che il concetto di nazione si sta estinguendo, ma l’uomo apolide, cosmopolita, perso nel globo è destabilizzante. Bisogna essere davvero forti per volersi smarrire nella globalità. Ho sentito i ragazzi di Kiev affermare che quando li chiameranno a servizio militare non avranno esitazione, perché è giusto combattere per la loro terra. Protestano contro la corruzione della classe politica. Sono stanchi della dipendenza dai “moskali” (come in ucraino e polacco chiamano i russi). Ritengono che l’Ucraina debba risolvere i suoi problemi interni innanzitutto, e da sola, senza l’intervento di nessun’altra nazione. Li ho ascoltati sognare di vivere bene come in Europa, entusiasmarsi per un lavoro internazionale tramite cui possono parlare inglese, conoscere persone di ogni paese. Come trovare il cuore di dir loro che se Kiev entrasse in Europa, patirebbe la fame più di oggi? Il servo diverrà un giorno padrone? Forse resterà servo- dell’una o dell’altra potenza, poco cambia. Forse troverà una nuova strada. Forse si spaccherà internamente in due parti. Nella peggiore delle ipotesi, sarà la miccia che farà esplodere conflitti di ampie proporzioni. Stare dalla parte degli americani o dei russi dipende solo ciò che è creduto maggiormente utile ai propri interessi, ma nessuno è libero. L’aveva capito il buon vecchio Faber, che “bisogna farne di strada, per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.
Tutto ciò che mi sovviene, al di là di considerazioni politiche e banalità di scarso livello, è proprio la tristezza del sogno europeo che vive nelle menti dei giovani, di chi spera in una vita migliore. Come sempre il popolo è la vittima, che tra il caos e il terrore, s’aggrappa ad un pezzo di stoffa a strisce- poco importa se sia la bandiera russa o ucraina. A commuovermi è quella speranza che si percepisce tra le loro domande entusiastiche sull’Europa, dove il clima è migliore, l’acqua è potabile, tutti hanno ottimo cibo a poco prezzo, case pulite e spaziose, dove gli esami universitari non si comprano. Persino di Donetsk, la città più “russa” di tutta l’Ucraina, la sensazione più vivida che mi è rimasta è il calore e l’entusiasmo delle persone del luogo, nel vedere arrivare nella loro città un’orda festosa di europei, nei quali vedevano la possibilità di un lavoro fuori dal loro paese.

Quello che mi fa stringere il cuore è figurarmi, tra i cliché dell’imminente guerra, del fascismo, della Russia o dell’America tiranna, un’Ucraina schiacciata e sanguinante, che vomita miseria e che otterrà miseria; perché io, quest’Ucraina, l’ho vista e l’ho vissuta, l’ho amata attraverso le sue persone, e mi ha accompagnato, tra la sua umiltà e avidità, nelle sue illusioni e nelle sue sofferenze, ospitando le mie scoperte e le mie delusioni. La mia è un’empatia che sgorga dal cuore e non dal cervello, perché se la Russia si può amare od odiare, se nella Russia si può solo credere, l’Ucraina si può solo capire.