Cristo è morto, Marx è morto e ora c’è la Ferragni

Mala tempora currunt. Mai come ora questa espressione si rivela attuale ed azzeccata. Si sa che l’Occidente pare tramontato da un bel pò, come sostenuto da Spengler. Trovo però che gli ultimi decenni siano lo specchio di una situazione di decadenza, di vuoto culturale sempre più devastante. Siamo oltre il nichilismo. Il nichilismo era la conseguenza della crisi spirituale tra Ottocento e Novecento, con conseguente sovvertimento del sistema di valori dell’epoca. Oggi il vuoto lasciato dal post-nichilismo è stato riempito da uno pseudo-pieno fatto di totale irrealtà. L’imperativo, cui i social network hanno dato una spinta e uno sfogo eclatante, è apparire: belli e popolari, ricchi e vincenti. Un tempo la bellezza era strettamente collegata alla natura, ne era una sua straordinaria e casuale espressione da riprodurre e rendere immortale tramite l’arte. La fotografia era un’arte ibrida, espressione di qualcosa di immutabile: la realtà, resa eterna dallo scatto. Bellezza e verità erano, cioè, un unicum. Prerogativa della bellezza contemporanea sembra essere, al contrario, la più totale finzione, il distacco sempre più netto dal vero. La bellezza è un valore da ottenere mediante qualsiasi tipo di trucco- sia esso semplice trucco, appunto, e posa, fino ad arrivare a botox e interventi chirurgici. Siamo nell’era dei filtri, di Photoshop e dell’autotune. Siamo annoiati, la realtà non ci da più alcuna soddisfazione. La foto di un panorama mozzafiato va comunque modificata tramite contrasto e saturazione, uno splendido viso femminile va reso più sexy con zigomi alti e naso più sottile, una voce va intonata perfettamente perché l’errore, le umane stonature, non sono più ammissibili non soltanto nei dischi, ma anche dal vivo. La landa desolata in cui gettiamo ogni giorno le nostre frustrazioni, la morbosa curiosità e la voglia di consenso- i social- è popolata di figure irreali, di proiezioni immaginifiche di una versione migliorata di noi stessi. E da lì ad un futuro virtuale- alimentato dal terrore di nuove pandemie- in cui il nostro avatar perfetto possa essere creato a tavolino e la vita reale perda di attrattiva al confronto della vita ideale sul web- il passo potrebbe essere più breve di quanto si pensi.

Emblematiche espressioni di queste nuove tendenze sono le piaghe più funeste della civiltà contemporanea dopo il coronavirus: gli influencer. Secondo una recente classifica, tra le persone più influenti sui social (tralasciando personaggi politici di dubbio gusto e cultura, perché non mi voglio addentrare nella politica) spiccano Gianluca Vacchi, Sferaebbasta e, ai vertici, la star assoluta: Chiara Ferragni. Chiara Ferragni è la perfetta rappresentazione degli pseudo valori contemporanei basati esclusivamente sulla superficie. Chiara Ferragni ci “influenza” e lo strumento stesso con cui lo fa ne diventa il contenuto. Non parla neppure, mostra soltanto. Cosa? Se stessa. La sua vita perfetta, ritoccata, in posa, opulenta. Cioè, il nulla. Un contenuto che è il contenitore… vuoto. Se ai suoi esordi la sfacciata e dichiarata frivolezza dei suoi contenuti dedicati alla moda erano confinati, per l’appunto, a quel settore e a quel tipo di pubblico appassionato, ora invece la Ferragni si rivolge al mondo intero, legittimata dal suo inquadramento all’interno di un’immagine rassicurante, positiva, encomiabile- quella della brava madre e, al contempo, donna indipendente, in carriera, “che si è fatta da sola”. In tal modo, risulta impeccabile: innanzitutto, è una donna, donna che propugna valori sani e sacrosanti- quello della famiglia in primis- non si droga, è imprenditrice di se stessa, fa beneficenza e, grazie al cielo, se ne guarda bene dal parlare di politica. Non sovverte il sistema, anzi, lo incoraggia e lo mostra all’ennesima potenza nel suo perfetto, luccicante involucro senza sbavature. Negli anni ’80 Vasco cantava: “voglio una vita spericolata”. Nel 2020 tanti gridano: “voglio una vita perfetta”, fatta di capelli sempre in piega, una casa perfetta in un quartiere perfetto, una linea invidiabile all’ottavo mese di gravidanza, una famiglia perfetta con figli biondi e perfetti, vacanze da sogno e cibo gourmet. Chiara Ferragni non comunica assolutamente niente, se non di essere una gran gnocca fotogenica (e quando lo fa, doverosamente, postando un video sulla violenza sulle donne, la pandemia o altri drammatici casi di cronaca, tra dizione artificiosa in cui tenta goffamente di camuffare l’accento padano, imprecisioni grammaticali e frasi degne di Miss Italia, l’imbarazzo è inevitabile). E qui è la magia: stregare il follower, attrarlo a sé senza dire niente di nuovo, di originale, di sovversivo, di culturale.

Chiara Ferragni rappresenta le donne contemporanee. Siamo sicure di essere orgogliosi di questo modello? Un tempo le donne, ahimè, avevano assai meno occasioni di esprimersi ed essere influenti, ma quando lo facevano, non scherzavano per niente. Si parte da donne del calibro di Ipazia e Saffo nell’antica Grecia, Cleopatra, Giovanna d’Arco, Caterina de’Medici, Caterina II di Russia, fino a Virginia Woolf, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack, Oriana Fallaci. Oggi abbiamo Chiara. Sto polemizzando ad uno scopo preciso, e cioè porre l’attenzione sulla responsabilità sociale e culturale di una influencer di questo calibro. Il “merito” della sua popolarità è sicuramente suo, lungimirante business-woman, ma è, come al solito, anche e soprattutto di chi la segue. La religione era l’oppio dei popoli, ora c’è l’influencer. Forse preferivo Gesù, ecco. Preferivo il parroco che citava i 10 comandamenti e ci rivelava che rubare è uccidere è sbagliato (sono inquietata da quello che sto scrivendo!!!). La consolazione che quando Chiara Ferragni su Instagram, con labbra divenute improvvisamente a canotto grazie ai filtri, rivela al popolino social l’incredibile ovvietà che la violenza sulle donne è esecrabile possa realmente essere un deterrente, è, ammettiamolo, ben magra. Altrettanto magra è la consolazione che la foto di Chiara Ferragni agli Uffizi di Firenze possa spingere un pubblico altrimenti improbabile a visitarli. Chi pensa che Botticelli sia una marca di vini, se anche andasse agli Uffizi al mero scopo di farsi un selfie con dietro la Venere, nella stessa posa della Ferragni, ne uscirebbe realmente arricchito? Si metterebbe a studiare l’arte rinascimentale? Certo, per lo meno si creerebbe più turismo in questi luoghi, si darebbe un contributo a finanziare l’arte. Sarebbe da appurare, però, quanto tale contributo possa essere realmente duraturo, dal momento che ciò che viene postato sui social è per definizione effimero, strettamente ancorato a mode passeggere. Potreste ribattere che non importa chi e come faccia pubblicità a qualcosa di culturale o socialmente utile, che l’importante sono i risultati: i fondi, la domanda che si crea attorno a ciò che viene mostrato. Sarà. Pur comprendendo che il gregge, dalla notte dei tempi, non sia mai stato persuaso da trattati filosofici o saggi scientifici, mi lascia perplessa la visione d’insieme: la totale assenza di progresso- anzi, temo che si possa parlare di regresso- nel modello culturale che veicola messaggi atti a muovere le masse. Il fine giustifica i mezzi, ma il mezzo è altrettanto importante, perché le masse non andrebbero solo mosse, ma anche istruite, stimolate con un riferimento culturale accattivante- a maggior ragione ai nostri tempi, dove è sempre più comune la tendenza a non ascoltare neppure ciò che viene detto, ma a limitarsi a guardare chi lo dice. Insomma: il rock è morto, Cristo è morto, Marx è morto, e al suo posto ci sono la Ferragni e Sferaebbasta. Non so voi, ma a me la cosa non mette di ottimo umore.