L’estetica del sociale nei talent show

Secondo voi, quanto bisognerebbe conoscere di un’opera d’arte per poterla apprezzare? Quanto dovrebbe incidere la storia dietro a un dipinto, una canzone, un romanzo, sul giudizio che ne diamo? La biografia dell’artista, le sue vicende personali dovrebbero avere un peso sulla nostra fruizione delle sue opere? Un esempio: sapere che Van Gogh era un artista tormentato, in grosse difficoltà economiche, con vicende personali complesse influisce in qualche modo sull’apprezzamento dei suoi Girasoli o del Campo di grano, o la potenza espressiva di quadri del genere parla già di per sé, grida già perfettamente il dramma e le emozioni dell’artista, senza richiedere ulteriori spiegazioni ed esegesi?

Una parte di me resta ancorata all’idea della pura bellezza e/o espressività dell’arte, al principio per cui essa sia già di per sé uno strumento che racconta una storia, che comunica senza bisogno di aggiungere altro, e che il giudizio non dovrebbe mai essere influenzato da altri elementi per essere davvero imparziale e puramente estetico. Quando aggiungiamo l’intelletto alla pura fruizione, in qualche modo “spezziamo l’incanto”, roviniamo qualcosa. La sindrome di Stendhal è il tipico esempio del legame subitaneo che si crea tra un’opera e il suo osservatore: l’opera viene colta immediatamente nel suo significato più profondo, penetra all’interno dell’emotività dello spettatore e la scuote, lasciandolo attonito. Tuttavia, è vero che conoscere la storia di un artista, il contesto culturale in cui ha vissuto, le sue esperienze di vita può essere di grande aiuto per la comprensione delle sue opere e per poterle, di conseguenza, apprezzare appieno e da punti di vista differenti. Quello che, a mio avviso, non dovrebbe accadere, è che la storia dell’artista diventi un a-priori, il solo criterio fondamentale per determinare la validità artistica di un’opera.

Oggi sembra dilagare quella che chiamerei “l’estetica del sociale“: pare che sia soltanto l’idea, purché socialmente impegnata, ad avere il sopravvento sulla tecnica artistica e che la storia degli artisti prevalga sulla loro reale abilità o sulla mera, ingenua fruizione di ciò che producono. I media, con reality e talent show, sfruttano ed esasperano l’esigenza, contemporanea e vagamente morbosa, di “spiare” il prossimo e sapere tutto della sua vita, la fame del popolino di “storie vere”, la spettacolarità del dramma dell’uomo comune. Prendiamo un programma come X Factor. Nel corso degli anni – per motivi politico-sociali legati alla particolare situazione degli ultimi decenni, in cui si sono acuite le battaglie per l’accettazione delle diversità, delle debolezze, dell’emarginazione – le storie personali degli aspiranti cantanti sono diventate sempre più centrali nel procedimento di selezione degli stessi. Nei talent show ha sempre più impatto quello che l’aspirante concorrente racconta di sé nel videoclip introduttivo o nella sua presentazione verbale ai giudici, che non la sua performance, la quale spesso cede la bellezza o la precisione tecnica a favore di nuovi fattori: la popolarità del brano, la vendibilità del personaggio e del genere musicale che canta, il tema che affronta nella canzone. La credibilità, la verità che l’artista porta sul palco sembrano divenute talmente rilevanti da, paradossalmente, rappresentare l’apoteosi della messa in scena, della falsità pompata dai media. L’eccesso di enfasi nell’esibire determinate caratteristiche che puntino alla sensibilità dello spettatore può rappresentare una scorciatoia sicura per arrivare al successo. I temi socialmente impegnati e politicamente corretti sembrano venir premiati a prescindere, perché fanno audience. Oltre ad XFactor e alle storie strappalacrime dei concorrenti, con annesse canzoni al riguardo, anche al festival di Sanremo la canzone italiana, da vera protagonista, è ormai un accessorio, un inframezzo tra monologhi in stile “pubblicità progresso”, gag e siparietti che toccano temi socialmente sensibili. Moralmente tutto ciò è apprezzabile, se serve a sensibilizzare la popolazione nei confronti di queste tematiche. Da un punto di vista meramente estetico, però, è inevitabile porsi la domanda che ho espresso all’inizio, ovvero: quanto, in verità, tutto ciò che esula dall’arte in sé dovrebbe avere un peso sul suo giudizio? Quanto ha senso che l’arte sia sempre più intrecciata con l’impegno sociale, e dove sono i confini tra questi due aspetti? L’arte è sempre stata al servizio di ideali poltico-sociali, basti pensare alla musica degli anni Sessanta, ma quando i temi sociali o le storie personali dei concorrenti vanno immancabilmente a strappare i famosi “4 sì” ai giudici in un concorso artistico, sembra abbia luogo il paradosso per cui chi non ha nulla da dire su di sé, non è stravagante e diverso, non abbia subito bullismo, abusi o abbandono non sia degno di particolare attenzione.

Propenderei per darmi una risposta “consolatoria”: l’arte valida, quella vera, è pura bellezza, è al di sopra della storia e del tempo e trionfa sempre: chi ha davvero talento, alla fine, vince – al di là del giudizio di questa o quella giuria. Quello che conta è chi poi, fuori dalla trasmissione, venderà davvero i suoi album, e non chi viene fatto avanzare soltanto grazie al suo impegno sociale o alla sua drammatica situazione a casa. La mia speranza è che voci come quella di una ragazzina con la chitarra che alle audizioni di XFactor di quest’anno ha commosso tutti cantando John Mitchell in modo semplice, armonioso e bellissimo, indipendentemente dalla sua storia personale, alla fine, siano quelle che parlano da sole e che vincono, e che tutte le espressioni artistiche di coloro cui si concede un “sì” di incoraggiamento per l’impegno sociale, la tenerezza, la pietà, la dolcezza o altre doti che non hanno però nulla a che fare con l’arte restino solo rispettabili e lodevoli meteore di passaggio. In altre parole, il mio auspicio è che la bellezza (artistica) non salvi il mondo, come fa dire Dostoevskij al principe Myshkin, ma quanto meno continui ad esserne protagonista e farlo sognare.