Il poeta Mandel’shtam, vittima delle sue parole

Si sa che i poeti russi di epoca sovietica sono stati spesso censurati (nel migliore dei casi), ma ce n’è uno che pur esprimere la sua opinione ha perso tutto ciò che possedeva. Vittima delle sue parole, fu un poeta originale e talentuoso, ebreo perseguitato non dai nazisti, ma dai suoi stessi connazionali russi. Sto parlando di Osip Mandel’shtam, ebreo russo nato a Varsavia e morto nella lontana Vladivostok, in estremo oriente, alla fine dell’Ottocento. La famiglia si trasferisce a Pietroburgo quando è piccolo, lui si iscrive alla facoltà di matematica e fisica, ma cambia idea e poi frequenta la Sorbonne e le lezioni di niente di meno che Henry Bergson. Soggiorna in Crimea, viaggia nel Caucaso, si stabilisce poi a Voronezh.

Nel 1933 scrive quello che Pasternak definirà un atto di suicidio, ovvero un epigramma contro Stalin, in cui il dittatore veniva definito:  «il montanaro del Cremlino» (кремлёвского горца), le cui «tozze dita come vermi sono grasse» ( толстые пальцы, как черви). Nel 1934, come volevasi dimostrare, viene arrestato e mandato in esilio a Perm’, liberato nel ’37 e arrestato nuovamente nel ’38, con l’accusa di non aver rispettato il divieto di vivere a Mosca, di frequentare nemici del partito e di fare propaganda antisovietica. Viene condannato ai lavori forzati e deportato nell’Estremo Oriente, dove poco dopo muore in un campo di lavoro.

Scrisse anche un saggio atipico che riguarda la letteratura italiana, Conversazione su Dante, in cui individua nell’udito il senso principale in gioco nell’Inferno, per la musicalità preponderante dei versi, e paragona la struttura della Divina Commedia a quella del cristallo. Originale è anche il fatto che individui in Dante una tecnica espressiva unica, chiamata da lui strumentalità convertibile (обращаемая орудийность), ovvero la capacità di creare un campo espressivo di ampissimo respiro tramite i versi, attraverso la trasmissione di molti stimoli verbali, strumenti che possono esprimere molto di più di quanto l’essere umano possa cogliere attraverso l’intelletto, perché riguardano l’estetica, la sensibilità fisica e la ricezione inconscia. Secondo Mandel’shtam la materia poetica non ha voce né forma, esiste solo in esecuzione nel delicato equilibrio strumentale tra la costruzione metrica e la recitazione, e la successiva decodificazione degli stimoli verbali che avviene nella mente del fruitore (attraverso la rielaborazione in simboli, immagini, concetti) rappresenta uno svilimento delle infinite potenzialità semantiche del testo poetico. In questo senso, la poesia è accostabile alla novecentesca fisica quantistica: i versi poetici sono pacchetti, cioè quanti, di energia polisemica dall’infinito potenziale, che raggiungono il lettore e immediatamente si dissolvono e si trasformano. In tal modo la complessità della loro essenza resta per definizione un mistero non svelato, proprio come accade nella meccanica quantistica per quanto riguarda il problema della misurazione (nel momento in cui l’occhio/lo strumento umano misura una grandezza quantistica, la va irreparabilmente a modificare producendo il collasso della funzione d’onda in uno stato preciso).

“Torniamo sulla Terra” e vediamo a livello materiale e concreto dove e come agisca il ventaglio di sensi e magia prodotto dalla forza quantica dei versi poetici. Vediamolo proprio con la materialità, la complessità e la forza evocativa di questi splendidi versi di Mandel’shtam:

Умывался ночью на дворе,-
Твердь сияла грубыми звездами.
Звездный луч – как соль на топоре,
Стынет бочка с полными краями.

На замок закрыты ворота,
И земля по совести сурова,-
Чище правды свежего холста
Вряд ли где отыщется основа.

Тает в бочке, словно соль, звезда,
И вода студеная чернее,
Чище смерть, соленее беда,
И земля правдивей и страшнее.
Mi lavavo nel cortile ch’era notte.
Di grezze stelle ardeva il firmamento.
Il loro raggio è sale sull’accetta,

Ghiaccia la botte dagli orli rasi.

Il portone è ben sprangato;
la terra, secondo la coscienza, è dura.
Troverai a stento più puro ordito della
verità d’una tela fresca di bucato.

Si discioglie nella botte, come sale, una stella
e l’acqua gelida è più scura,
più pura la morte, più salata la sventura,
ed è più vera e più terribile la terra.

I versi ricordano quelli di Tarkovskij, le similitudini sono suggestive e materiche. La parola Стынет, dal verbo стыть (ghiacciare, raffreddarsi) gli aggettivi: сурова (aspra, rigida, lugubre), l’uso del termine топор (scure, accetta)- che peraltro è l’arma del delitto di Raskol’nikov in Delitto e Castigo-,  i molti aggettivi comparativi nel finale (più pura, più salata, più vera, più terribile), la ripetizione del termine “sale”come parola chiave della poesia cooperano per alimentare la suggestione sensoriale dell’asprezza dell’atmosfera notturna e dei tormenti di coscienza. Sono versi “salati”, in tutti i sensi che può suggerire questa parola.

E, come presagio della morte futura e prematura, Mandel’shtam scrive nel 1830:

Куда как страшно нам с тобой,
Товарищ большеротый мой!
Ох, как крошится наш табак,
Щелкунчик, дружок, дурак!

А мог бы жизнь просвистать скворцом,
Заесть ореховым пирогом,

Да, видно, нельзя никак...

Guarda la paura a cosa ci ha ridotto,
o mio compagno dalla grande bocca!

Guarda il tabacco nostro che si sbriciola,
Schiacciandoci, caro amico, babbeo!

Come uno storno soffiare al vento la vita,
come torta di noci divorarla;

ma è un desiderio proibito…

In russo si possono apprezzare le rime baciate che seguono lo schema: AA,  BB, CC, B. I puntini di sospensione in finale indicano che l’impossibilità di divorare la vita non è risolvibile e il tormento continua.

Per rendergli onore e dare voce alla tanto agognata libertà di stampa, che ancor oggi fa tanto discutere, non si può non citare per intero la famosa poesia contro Stalin che gli costò la vita:

Мы живем, под собою не чуя страны,
Наши речи за десять шагов не слышны,
А где хватит на полразговорца,
Там припомнят кремлёвского горца.
Его толстые пальцы, как черви, жирны,
А слова, как пудовые гири, верны,
Тараканьи смеются усища,
И сияют его голенища.

А вокруг него сброд тонкошеих вождей,
Он играет услугами полулюдей.
Кто свистит, кто мяучит, кто хнычет,
Он один лишь бабачит и тычет,
Как подкову, кует за указом указ:

Кому в пах, кому в лоб, кому в бровь, кому в глаз.
Что ни казнь у него – то малина
И широкая грудь осетина.

Non fiutiamo il paese sotto i nostri piedi,
a dieci passi di distanza non si sentono i discorsi,

e ovunque ci sia spazio per un mezzo discorso
là ricordano sempre il montanaro del Cremino.

Le sue dita tozze sono grasse come vermi,
le sue parole veritiere come fili a piombo.

Ammiccano nel riso i suoi baffetti da scarafaggio
e brillano i suoi stivali.

Ha intorno una marmaglia di capetti dagli esili colli
E si diletta dei servigi di mezzi uomini.

Chi miaglola, chi stride, chi guaisce
Se lui solo apre bocca o alza il dito.

Forgia un decreto dopo l’altro come ferri di cavallo:
e a chi lo dà nell’inguine, a chi fra gli occhi, sulla fronte o sul muso.

Ogni morte è un lampone
Per lui, osseta dall’ampio petto.

Possiamo proprio dire che quell’ironia, quell’audacia, l’acuta metafora in stile kafkiano del verme e dello scarafaggio gli costarono la vita. Proprio come, in un certo senso, le vignette del Charlie Hebdo, al di là del buon gusto, costarono la vita ai giornalisti francesi.

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