La mia vita di Cechov e la rivalutazione del lavoro fisico

Un lavoro intellettuale è preferibile ad un lavoro fisico? Questo è uno dei temi, peraltro attualissimi, affrontati nel racconto “La mia vita” (Моя жизнь), uno dei più belli di Anton Cechov. Misail, il protagonista del racconto, è figlio di un nobile architetto e da lui il padre si aspetta che metta a frutto la possibilità, garantita dallo status economico e sociale della famiglia, di studiare e diventare medico, architetto, avvocato, o quant’altro. Le aspettative del padre verranno del tutto disattese, in quanto Misail, per natura, predilige lavori umili e semplici, in cui lo sforzo fisico è predominante, a contatto con la terra e la natura. Ciò lo porterà ad essere escluso non solo dal padre, ma anche dalla cerchia dei suoi altolocati conoscenti. Soltanto una donna si interesserà a lui e diverrà sua sposa, andranno insieme a vivere in campagna, dove Misail lavora ogni giorno la terra, ma anche in questo caso (spoiler!) non ci sarà un happy ending.

Il pensiero di fondo di Misail è un risvolto dell’ideale comunista e del principio morale secondo cui i forti non dovrebbero asservire i deboli e dunque tutti, nessuno escluso, dovrebbero esercitare un lavoro fisico. Misail, in questo modo, sfata due miti: in primo luogo, l’ideale del progresso come avanzamento intellettuale e scientifico, che egli considera del tutto indefinito, a favore invece del principio morale di uguaglianza ed indipendenza (secondo cui se tutti lavorassero manualmente, provvedendo al proprio sostentamento, e dunque i ricchi non dipendessero e non si facessero servire dalla fatica delle braccia dei meno abbienti, ebbene questo rappresenterebbe il vero progresso). Il secondo mito che sfata Misail è  quello che sia auspicabile emarginarsi dal lavoro fisico. “Questi sono lavori che gli italiani non vogliono più fare”, sentiamo ripetere ogni giorno come (opinabile) argomentazione della legittimazione dell’immigrazione clandestina. Qual è, però, l’alternativa a tutto ciò? Dov’è il vero lavoro intellettuale, tanto agognato? Per lo più, nella pratica, ci si ritrova davanti alla scrivania di un ufficio: nessuna meditazione trascendentale di scienza, filosofia o letteratura, nessuno stimolo, nessuna creazione di qualcosa di nuovo o socialmente utile, ma la ripetizione di gesti altrettanto alienanti quali trascrivere, fotocopiare, stare ore in conference calls, inviare migliaia di mail, per giunta sempre seduti davanti ad uno schermo. La crescita professionale non sempre esenta da funzioni d’ufficio noiose ed aride, e il risultato è un mondo di lavoratori frustrati che non staccano mai (giacché i lavori d’ufficio continuano anche a casa, con lo smart working), ma soprattutto non esercitano davvero quelle idealistiche attività intellettuali, frutto di anni ed anni di master, dottorati, corsi post-laurea e quant’altro. Il paradosso è che un laureato che lavora in un’azienda ha molto meno tempo per dedicarsi ad attività intellettuali, quali la lettura di un libro, rispetto ad un operaio edile, che ha orari lavorativi ben definiti e che quando stacca potrebbe avere tempo di dedicarsi ad altro.

Misail trova un appagamento e un senso alla sua vita nello svolgere attività fisiche, il che permette alla sua mente di viaggiare libera, di riflettere mentre lavora la terra. Il risultato del suo lavoro è qualcosa che può apprezzare direttamente, con cui ha un legame stretto. Lo sforzo fisico ha una componente catartica. Il fatto che eserciti un lavoro umile e manuale non lo sminuisce da un punto di vista intellettuale, giacché il proprio bagaglio culturale è indipendente dalla professione che si esercita e può essere costantemente e volontariamente aggiornato.

La vera questione si riduce ad una sola, fatidica domanda: ci piace il lavoro che facciamo? Ciò a cui davvero tende l’essere umano è la felicità. Il mito di esercitare una professione che sia anche una passione riuscirebbe ad annullare quell’inevitabile componente di fatica, di sforzo, di noia insita in qualsiasi attività lavorativa. Misail incarna il successo di questo intento: egli è felice di fare il bracciante, nonostante sia di una famiglia nobile. Questa semplice constatazione dovrebbe fargli godere della comprensione, approvazione, se non invidia, dei compaesani della sua cerchia sociale, invece tutto ciò che ottiene da essi è indignazione e biasimo per aver disdegnato il patrimonio intellettuale di famiglia. Chiunque nuoti controcorrente va incontro all’ovvio destino di restare solo. Il retaggio culturale da cui siamo inconsciamente influenzati da secoli è difficilmente alienabile: un ragazzo di famiglia abbiente che decidesse di fare l’operaio o il cameriere, per quanto possa dichiararsi felice e soddisfatto, sarebbe comunque additato dalla società come uno stravagante, qualcuno che ha sprecato le sue possibilità e che “potrebbe fare di meglio”. Ceckhov descrive con maestria un topos della letteratura russa, il contrasto tra la società e il singolo, che sempre ha esiti drammatici, come del resto in Ostrovskij o Tolstoj.