I ragazzi di Donetsk: prima e dopo la guerra

Donetsk, 2011. Ricordo i volti sorridenti dei ragazzi di Donetsk, divenuti ancora più sorridenti da quando circa 300 italiani “fecero irruzione” nello stadio cittadino, il Donbass Arena, per organizzare un grande evento- la cerimonia dei 75 anni della squadra di calcio locale, lo Shakhtar. I ragazzi di Donetsk erano molto simili ai nostri, ma con tanta apertura e curiosità verso gli stranieri, con tanta ammirazione verso l’Italia e tanta voglia di collaborare. Un evento così grande, così internazionale rappresentava per loro un’occasione insolita e davvero unica.

Ammetto che anche per me, ai tempi, Donetsk era soltanto un punto su una carta geografica. Sapevo dove si collocasse l’Ucraina, ma non avevo mai sentito nominare quella città- la più importante, peraltro, dopo Kiev. Quando arrivai a Donetsk, pensai di essere in un luogo ex-sovietico qualunque. Un luogo disperso, inospitale, gelido, triste. La neve di marzo ricopriva le strade e si tingeva di grigio, si incupiva anche lei, come i rami secchi degli alberi. Le palazzine erano quelle tipiche sovietiche, casermoni tutti uguali di cemento con il cortile interno con il “parco giochi” di ferro arrugginito. I viali erano larghi e lunghi, privi di anima. Non capivo dove fosse il centro, non c’era di certo un centro storico pedonale. C’era tanta polvere in giro, dovuta alle particelle delle miniere di carbone (Shakhtar, il nome della squadra di calcio, significa infatti “minatore”). Non che mi aspettassi di atterrare in una ridente cittadina del Sud ed essere accolta da un cocktail di benvenuto e una danza caraibica, ma l’atmosfera cupa della città d’inverno mi lasciò davvero perplessa. Ero stata, prima di quel momento, soltanto a Mosca e San Pietroburgo d’estate- ben altra cosa. Parlavo un russo stentato, avevo frequentato soltanto un corso di 3 mesi all’Università Lomonosov di Mosca. All’inizio, Donestk mi parve ostile anche per le difficoltà con la lingua, con cui appunto avevo poca esperienza pratica- nonostante fossi stata presa come interprete alle prime armi. Avevo chiarito che conoscevo solo il russo e non l’ucraino, ma mi dissero che non c’era problema, lì tutti parlavano principalmente russo, essendo una città al confine. Mi lasciò stupita ascoltare in televisione, nei principali talk show, persone parlare russo e poi ucraino come se niente fosse; saltavano da una lingua all’altra senza neanche rendersene conto. Ugualmente, l’Mtv ucraina (il canale di musica) trasmetteva per lo più pezzi in russo, ma ogni tanto anche qualche pezzo in ucraino- indifferentemente.

Furono proprio loro, i ragazzi del posto, a farmi cambiare idea su Donestk. Furono la loro accoglienza, la loro ospitalità e il loro atteggiamento amichevole a rendere quell’esperienza di 4 mesi una delle più intense, emozionanti e piacevoli della mia vita. Un’esperienza che non dimenticherò mai per svariate ragioni emotive- per me si trattò di una grande prova, avevo 26 anni e quell’esperienza segnò la mia vita per sempre, determinando la mia scelta futura di proseguire nello studio del russo e diventare un’interprete. Ero costantemente sotto pressione, costantemente alle prese con un lavoro nuovo, con persone nuove alle quali dovevo dimostrare il mio valore. Se non ci fossero stati quei ragazzi ad aiutarmi con la lingua, con i loro modi aperti, con la loro sensibilità, non so se avrei retto il peso del mio compito, poiché non ne ero all’altezza. Mi ero resa conto che il russo era assai più complesso di quanto non mi fosse apparso al corso a Mosca e durante 1 anno di lavoro a Milano nell’ambito della moda. Lì i termini erano sempre gli stessi. Qui ogni momento saltava fuori un nuovo micro-universo con cui confrontarsi, con un lessico specifico- logistica, spettacolo, amministrazione, medicina, pagamenti, organizzazione.

Anche ai miei colleghi italiani quel luogo così cupo e diverso rispetto alle nostre città divenne a mano a mano familiare. La routine quotidiana ci faceva sentire a casa, così come, appunto, le persone del luogo. Il pranzo sempre al Donbass Cafè, la caffetteria al pian terreno dello stadio; le serate alla birreria più grande di Donetsk, la Jusovskaja Pivovarnia, in stile vagamente americano; le nottate pazze al Bikers, un bar con musica hard rock dove al piano seminterrato c’era un tiro dove potevi sparare ai nazisti (a dei pupazzi di legno vestiti da SS); i taxi che costavano 2 euro e ti portavano dove volevi, con i sedili in pelouche, con i loro ninnoli appesi allo specchietto retrovisore- chi un’icona ortodossa, chi l’occhio di Allah; gli appartamenti nelle vie dai nomi impronunciabili, tutti con quegli ingressi decadenti… tutto questo era diventato, per noi, la quotidianità.

I ragazzi di Donestk mi erano apparsi diversi da quelli di Mosca. Amavano la loro città, proprio come i moscoviti amano la loro, ma avevano un atteggiamento più semplice e modesto, più “europeo”, più aperto. Erano proprio come quelli di Kiev, con cui lavorai nel 2012 per 3 mesi in occasione di un’altra cerimonia nello stadio locale, questa volta quella dei Campionati Europei di Calcio. Conoscevano bene la loro città, vi si muovevano con facilità, erano pieni di idee. Ci facevano da Ciceroni e da intermediari, ci avvertivano quando qualcuno del posto cercava di fregarci, di approfittarsene con prezzi “gonfiati”. Per loro la macchina era tutto- alcuni, appena diciottenni, avevano appena conquistato delle belle macchine nuove, europee, che trattavano come delle divinità. A Donetsk a volte andavo a ballare in un locale gay, amato da alcuni miei amici del posto- era in un seminterrato, mettevano canzonette pop-dance russe paragonabili ai nostri pezzi della Carrà, su ogni tavolo troneggiava una bottiglia di vodka e la gente ballava di fronte ad un grande specchio a parete, guardandosi riflessa. Sempre a Donetsk, noi italiani ci esaltammo come bambini quando una ragazza del posto ci portò di sera ad un poligono di tiro clandestino, a sparare in un seminterrato con armi vere- c’era un vero e proprio menù, con kalashnikov, M16 e via dicendo. Ho conservato ancora un mega bossolo rosso di quell’esperienza. A distanza di soli 3 anni, pensare che quelle armi sarebbero divenute d’uso quotidiano per la gente del posto per ammazzarsi a vicenda mi fa rabbrividire.

2014. Un’immagine del Donbass Arena bombardato e distrutto. Lì, dove ogni giorno per 4 mesi andavo in ufficio, con le pareti dipinte insopportabilmente di un arancione acceso. La città dilaniata dalla guerra civile. Le persone in fuga. Le persone uccise. Non mi pareva vero: soltanto 3 anni prima ero stata lì, a contatto con le persone, non c’era stata alcuna avvisaglia di tutto questo. Nei ragazzi di Donetsk non avevo colto alcun tipo di inquietudine, di crisi, di malcontento. Si sentivano semplicemente… se stessi. Ucraini o russi, cosa importava? Erano esattamente questo… ibrido, chiamateli come volete, erano cresciuti in una terra di confine e per loro era normale. Parlavano russo anche in famiglia, alcuni addirittura conoscevano male l’ucraino, altri invece mi raccontavano orgogliosamente di come l’Ucraina avesse una lingua molto melodica, perfetta per le canzoni proprio come l’italiano, di come le tradizioni ucraine fossero diverse da quelle russe, così come la storia e la cultura della nazione. Uno di questi, un ragazzo bello e giovane, laureato in storia, andò a combattere come volontario al fianco dell’esercito ucraino per difendere la sua Donetsk dal diventare indipendente o- peggio ancora- russa. Dopo soltanto un mese dall’inizio del conflitto una granata gli cadde addosso e lo uccise. Pensare che quel ragazzo, con cui mi ero bevuta una birra e che mi aveva raccontato dei suoi progetti, del suo interesse per la storia del suo Paese, avesse coscientemente deciso di immolarsi per la sua nazione, per un’idea, mi lasciò attonita. Forse è in questo che i ragazzi di Donetsk, di Kiev, sono diversi dai nostri. Dentro di loro, anche se sono una generazione che non aveva mai visto guerre prima d’ora, come la nostra, e che ha solo dei ricordi d’infanzia dell’Unione Sovietica- o non ne ha affatto- c’è uno slancio, una ferita forse, che in Italia non abbiamo. Una breccia nel loro animo li porta a porre certi valori, certi ideali, persino prima della propria vita. Certo, chi ha famiglia, bambini piccoli, non ha esitato a fuggire, a rifugiarsi all’estero oppure nelle città di campagna per sfuggire alle bombe- anche se nessuno, al momento, che si trovi in Ucraina, può davvero dirsi al sicuro. Eppure sono in tanti a credere, a lottare, a schierarsi, protestare. Erano in tantissimi, del resto, alla protesta dell’Euromaidan a Kiev, iniziata alla fine del 2013. Gente comune, studenti, donne, ragazzi, persone di ogni tipo. Perché rispetto al nostro Paese, l’Ucraina porta i segni del suo passato e del suo presente difficile- i segni della corruzione dei suoi politici, dello squilibrio acuto tra oligarchi milionari che girano con le guardie del corpo dietro i vetri oscurati delle automobili e gente che fa fatica ad arrivare alla fine del mese; i segni di settant’anni di dominazione sovietica e quelli, violenti e repentini, della conquista dell’Indipendenza e dell’esplosione di un capitalismo ingordo, un’occidentalizzazione avida e catartica; quelli di una profonda differenza culturale tra Est e Ovest, tra due generazioni, tra due lingue e due culture, quella russa e quella ucraina, profondamente intrecciate ma diverse, che da tempo immemore si alternano e si fondono nel Paese; il contrasto tra l’apertura verso l’Occidente e i legami territoriali, culturali ed economici con la Russia.

“Ucraina” in russo si pronuncia con l’accento sulla “a”, Ucràina, mentre in ucraino con l’accento sulla “i”. Il termine significa, in antica lingua slava, “sul confine”, “al margine”, “in periferia”. Sembra rendere bene l’idea di un luogo di confine, appunto, in mezzo, a cavallo tra Occidente e Russia. Ma in lingua ucraina la parola “kraijna” significa semplicemente “terra, paese”. “Ucraina”dunque significa “presso il mio paese, nella mia terra”. Ed è questo che mi auspico, è questo il mio augurio e la mia speranza per tutto il popolo ucraino: che la loro nazione torni a corrispondere al suo significato in lingua madre- che trovarsi in Ucraina, per loro, un giorno significhi semplicemente trovarsi nella loro patria, a casa, in pace.