Don’t look up: non guardiamo in alto ma guardiamoci allo specchio

A camminare guardando le stelle, si finisce per cadere nei pozzi. Si narra che fu Talete a cadere per davvero in un pozzo perché troppo preso dall’osservare il firmamento. Allora è davvero così, non dovremmo soffermarci troppo a speculare sulle cose immateriali, ma concentrarci solo sul concreto e sul pratico?

Stando al nuovo film su Netflix, già diventato un cult, “Don’t look up”, sembrerebbe di sì, ma qui l’imperativo di non guardare il cielo assume connotati grotteschi e ben più inquietanti. “Non guardare in alto” significa non credere neppure all’evidenza, diventa la metafora per cui l’uomo contemporaneo non dovrebbe lasciarsi abbindolare da teorie e previsioni- per quanto fondate su basi scientifiche!!!-, ma andare avanti per la propria strada, come un “asin bigio” con il paraocchi. Il difficile, a questo punto, diviene stabilire chi realmente sia l’ottuso- se il “credulone” paranoico, terrorizzato dalla pandemia, dal cambiamento climatico, dall’eventuale previsione di un asteroide che colpirà la Terra- o il negazionista, l'”asin bigio” che crede di non credere, ma che a sua volta, appunto, crede nell’inattendibilità a priori di qualsiasi fonte di informazione o nel complotto sempre dietro ad ogni iniziativa.

Il problema che mette in luce in maniera molto efficace Don’t look up– con alcune trovate davvero riuscite- è la diffidenza inevitabile maturata dal popolo verso l’informazione. L’informazione nasce già parziale ed inattendibile, ma oggi tutto ciò ha raggiunto livelli parossistici. Alzi la mano chi, leggendo le news dalle pagine social o quelle inviate su Whatsapp dagli amici, non si è mai domandato: “ma sarà vero? Qual è la fonte?” Alzi la mano chi non ha dubitato mai, neppure un secondo, dell’efficacia dei vaccini, della reale pericolosità del COVID (quando ancora non se ne conoscevano bene l’entità e le conseguenze). Di contro, alzi la mano chi non è andato nel panico leggendo di tutti i morti e ricoverati in terapia intensiva, a partire dal terribile febbraio 2020.

Scetticismo da una parte, terrore dall’altra. I media alimentano entrambe le “correnti” e talvolta sembra una gara a chi la dice più grossa, in stile “scemo e più scemo”. Se provate a discutere con un no vax (lo so, è impossibile!), vi renderete conto di quanto sia difficile sradicare un’opinione consolidata. Le tesi e i dati che i no vax usano per screditare quelli che voi citate per avvalorare la vostra posizione sono altrettanto difficili da contestare (basti pensare a tutti quelli che credono che l’allunaggio sia stato una montatura- perché se l’unica prova sono foto e video, questi sono i primi a poter essere manipolati), e il risultato è piombare in un circolo vizioso simile ad un sofisma, per cui il dubbio cartesiano diventa così iperbolico da rendere impossibile- a livello teorico- affermare qualsiasi cosa. L’uomo contemporaneo è prigioniero dell’opinione e non vede più la realtà. Non si giunge mai alla certezza, al “penso, dunque sono” (forse perché, in fin dei conti, non si pensa affatto!).

La filosofia insegna a mettere in discussione qualunque affermazione, a non dar nulla per scontato. Il dubbio è l’origine del pensiero, è ciò che gli permette di evolversi e complicarsi, ma che fare se tutte le informazioni che riceviamo si equivalgono perché, apparentemente, nessuna di esse è comprovabile? Le prove concrete di qualsiasi evento sono divenute troppo lontane dall’individuo. La scienza, invece di essere accessibile al popolo, ne è oggi estremamente distante. Un tempo, per rendermi conto dell’attendibilità della teoria della caduta dei gravi di Galileo, mi bastava empiricamente seguire il suo esperimento (o il paradosso dei treni di Einstein per rendermi conto della relatività). Un tempo, cioè, le persone potevano “scendere in piazza” e interloquire direttamente con i governi o gli scienziati, toccare con mano le situazioni. Oggi tutto si fa da remoto, si legge, si clicca, oggi tutto è distante e si riduce ad un mucchio di parole e immagini sullo schermo dello smartphone. Diventa difficile discriminare cosa sia reale da cosa non lo sia, persino se parliamo di comprovati dati statistici ed empirici, fatti concreti e così via.

Incredulità, diffidenza, tendenza a minimizzare: questa è la chiave per comprendere la distorsione dell’informazione e la mentalità del popolo di Internet (difficile dire se sia nato prima l’uovo o la gallina). In Don’t look up una delle scene più emblematiche ed efficaci è quella dei due giornalisti al talk show che deridono e minimizzano le funeste affermazioni degli astronomi sull’asteroide che entro sei mesi colpirà la Terra- perché in televisione “the show must go on”, tutto dev’essere appetibile, divertente, leggero. Gli scienziati sono dunque Cassandre contemporanee, condannati a non essere creduti, non certo per la loro inesperienza o l’inattendibilità di ciò che vanno affermando, ma perché è il sistema stesso della comunicazione ad essere vizioso per definizione, permeato di informazioni- spazzatura, idiozie, fake news. “Sapete quanti sedicenti scienziati ogni giorno vengono qui a predire la fine del mondo?”, dice una Maryl Streep-Presidente degli Stati Uniti, che incarna perfettamente lo stereotipo del capo di Stato che ha visto troppo ma che non ha, in verità, visto un bel niente.

Don’t look up è uno perfetto specchio farsesco e satirico della realtà contemporanea. Senza dubbio è una pellicola da vedere, ma che, a mio avviso, manca di qualcosa- un twist di genialità, un’idea davvero originale. Il film si limita a descrivere e prendere in giro, ad ammonire forse, ma non va oltre all’effetto specchio. Oltre allo specchio, servirebbe un martello per distruggere, una chiave per aprire. Don’t look up siamo noi che ci facciamo un selfie e vediamo il nostro faccione- inevitabilmente pieno di difetti- troppo da vicino. A chi di tutto questo è consapevole da anni, il film avrebbe potuto offrire qualche spunto in più: un finale risolutivo o profetico in senso nuovo, uno strumento per orientarsi nell’eterna lotta tra vero e falso, un nuovo modo di vivere e toccare di nuovo con mano la realtà, fattasi troppo distante per “colpa” del web. Questo “sporco lavoro”, invece che al regista del film, toccherà a noi, ed è davvero necessario farlo.