Madri o non madri, purché libere di parlarne

Recentemente si è parlato di maternità e maternità mancata a Sanremo, nel monologo di Chiara Francini– che, come ogni monologo che si rispetti, ha ricevuto un milione di critiche, ma anche di elogi (seppure sia stato mandato in onda tardissimo). Il fatto è che di questo argomento si parla troppo poco e sempre in modo molto ovvio oppure incompleto. Ovvio, perché della cosa più naturale, antica e normale del mondo si è davvero detto di tutto nel corso dei secoli, incompleto perché sembra che ci siano degli argomenti tabù, delle zone d’ombra di cui si fa fatica a parlare, ma anche perché credo che si possa parlare di maternità in modo azzeccato solo nel momento in cui la si è vissuta. Viceversa, non si può comprendere a pieno i sentimenti di chi sceglie di non essere madre o di chi non lo può diventare suo malgrado, nel momento in cui si è già madri o si è molto lontani psicologicamente da quella situazione e quel momento della vita di una donna (o, banalmente, se si è uomini- sì, ditemi pure che sono sessista o antica, ma mi piace pensare che la maternità sia ancora qualcosa di femminile, di legato esclusivamente al mondo della donna: nonostante i progressi della scienza, non mi risulta infatti che l’uomo sia ancora in grado di partorire!).

Il fatto è che ci sono etichette, luoghi comuni e categorizzazioni imprescindibili, persino nelle realtà più tolleranti, contemporanee e inclusive: la donna, appunto, è e rimane biologicamente ed intrinsecamente legata alla procreazione e alla maternità, con tutte le difficoltà che precedono e seguono l’atto di mettere al mondo una vita, ma soprattutto con un’antipatica, ma per il momento difficilmente evitabile, “data di scadenza” dettata dal famoso orologio biologico. Ugualmente, le donne che, per scelta o per condizione, non hanno figli, vengono etichettate come contrapposte alle madri e spesso faticano a trovare una dimensione che le metta a loro agio nella società. Insomma: è difficile essere madre ed è altrettanto difficile non esserlo, dopo i trenta, quarant’anni soprattutto. E’difficile esserlo perché sembra ci sia una spaccatura netta tra il mondo delle madri e quello delle non madri, non solo a livello di etichetta sociale, ma anche di vita pratica, come se i due mondi fossero talmente opposti e chiusi da non poter in alcun modo dialogare. Si tende infatti a frequentare chi è in una situazione simile alla propria. Tutto ciò dovrebbe essere tanto banale quanto privo di problemi, ma non lo è, è questo il punto. Ci si sente inadeguati in entrambi i mondi, soltanto per la “colpa” di farne inevitabilmente parte. Come non madre, una donna deve chiaramente scontrarsi con i classici cliché della zitella, della donna in carriera, dell’arcigna e della cinica strega che odia i bambini, della single incallita e un pò troppo matura per darsi all’avventura; viceversa, come madri, ci si sente spesso inadeguate in contesti diversi: quello lavorativo prima di tutto, ma anche quello sociale, laddove il gruppo di amici senza figli inevitabilmente ti giudica e tende ad escluderti dalla sua cerchia dal primo momento in cui annunci di essere incinta. Un aspetto del monologo della Francini mi ha colpito, quello in cui fa cenno alla “violenza” dell’allegria imposta dalle donne incinte. Siamo in un terreno scottante, dove è facile additare la Francini come la classica donna invidiosa e insofferente che si scaglia contro l’imperativo dell’entusiasmo imposto dalle amiche che annunciano di essere incinte a chi non è interessato all’argomento figli o, peggio ancora, a chi nello stesso momento sta soffrendo perché ha difficolta a concepirli. Questo aspetto delicato non riguarda solo la maternità, ma tutte quelle situazioni della vita in cui un amico o conoscente esterna un suo successo o lieto evento e si aspetta da noi una reazione empatica, una partecipazione entusiastica alla sua gioia (in un momento in cui magari non abbiamo alcuna voglia di gioire perché, al contrario, a noi le cose stanno andando piuttosto male). E’ legittimo, del resto aspettarsi empatia ed interesse da un amico e non vi è nessuna colpa nel voler condividere un bel momento. Così come la Francini, in modo franco e per certi versi disturbante, esterna giustamente la sua insofferenza verso quelle situazioni di convenevoli sociali legate alla gravidanza altrui, allo stesso modo le donne incinte dovrebbero essere libere di parlare serenamente della loro gravidanza, anche degli aspetti più imbarazzanti o difficili da condividere, anche a costo di risultare moleste di fronte ai loro amici. La gioia, così come la tristezza altrui, sono del resto per definizione estremamente moleste agli occhi di chi non le sta vivendo.

La verità è che diventare madri segna davvero uno spartiacque profondissimo tra la propria vita precedente e quella nuova, un cambiamento epocale ed irreversibile. Non si sarà mai più gli stessi, nel bene e nel male, è come morire e rinascere diversi e nuovi assieme alla persona che si mette al mondo, e il recupero della propria identità non al di fuori, ma NONOSTANTE i figli diviene una necessità imprescindibile e, talvolta, dolorosa e difficile da conquistare. Solo il tempo può riportare la situazione ad una nuova normalità, in cui l’Io precedente non è recuperabile, è semplicemente divenuto altro e occorre accettare l’intruso, lo straniero, quell’Io che appare annullato ma è invece arricchito dalla presenza di una nuova parte di sé, il bambino, che è sé ma è altro da sé eppure diviene il Tutto, l’imperatore del mondo, il tiranno che scandisce ogni microscopica porzione di tempo della sua mamma e allo stesso tempo l’unica ragione della sua vita. L’atto della procreazione diviene, di per sé, il senso dell’esistenza di chi lo prova (prima il senso era altro, ed il senso dell’esistenza di chi non si riproduce è e rimane ovviamente altro), e questa epifania può essere davvero sconcertante. Il parto è un’affermazione di senso potente come la morte, ne è la più grande contrapposizione ma, in un certo senso, dando la vita, la madre muore. Muore una parte della madre, quella prima di essere madre, ma muore anche la nuova madre, kamikaze pronta ad annullarsi e uccidersi senza esitazione pur di difendere il suo bambino.

Per rispondere ad antipatici stereotipi ed etichette limitanti bisognerebbe parlare di maternità in maniera più libera, ma soprattutto farlo con il cuore e non con la solita caterva di banalità. Non fraintendetemi: le cose più belle della vita sono terribilmente banali, ma non per questo non degne di essere dette e ripetute all’infinito. Le canzoni più amate nella storia hanno testi assai semplici e proprio per questo diretti, comprensibili, efficaci, universali. Ho cercato per anni di dire qualcosa di originale, per capire che non bisogna esserlo per forza per esternare le proprie emozioni- che, peraltro, sono comuni a tutta l’umanità quando si parla di esperienze universali. Bisogna semplicemente essere veri. Questo stesso articolo che ho scritto non è certo la scoperta dell’America, ma rispecchia esattamente il mio pensiero. La Francini, pur criticabile, è stata sincera, perché dal suo monologo traspariva la verità della sua situazione, i suoi dubbi, la difficoltà di essere ciò che è e di avere il coraggio di dirlo. Ugualmente, le donne che hanno avuto figli dovrebbero avere il coraggio di dire senza mezzi termini la meraviglia e la frustrazione di diventare madri; raccontarlo senza paura del giudizio altrui, soffermandosi anche sugli aspetti bui, come ad esempio la depressione post partum, di cui si parla ancora pochissimo- e non intendo soltanto i casi limite di donne cui è stata realmente diagnosticata questa grave patologia, ma anche di baby blues, di tutto quel turbine di sensazioni amplificate, destabilizzanti e soverchianti, in parte dovute alla tempesta ormonale, che conseguono al parto e che sono molto più diffuse della vera e propria depressione, ma non meno degne di essere ascoltate e capite, anche perché possono durare a lungo e avere un impatto anche grave sulla psicologia di chi le vive. Mi ha colpito che si insista tanto sul corso pre-parto, fornito con il sistema sanitario nazionale, ma che non si riservi la stessa attenzione a tutto ciò che succede dopo il parto, che è enormemente più delicato ed importante. Ad ogni donna dovrebbe essere riservato un corso post-partum, un supporto psicologico conseguente alla nascita del figlio, e non come opzione facoltativa.

Ogni donna oggi è libera di vivere la maternità o la non maternità come preferisce, ma è inevitabile che venga giudicata ed etichettata, e così sarà per sempre. Non è realistico pensare di annullare le etichette, lo è invece auspicare ad una normalizzazione di tutto ciò che riguarda le scelte di vita delle donne, ma soprattutto ad un’accettazione serena della propria condizione attraverso il supporto, il dialogo e l’assenza di tabù. Solo parlando sinceramente di ciò che si prova si può affrontarlo e superarlo. Una donna che vive male la sua situazione di mamma o di non mamma difficilmente potrà trasmettere serenità e convinzione, che sono la base per evitare giudizi infelici da parte degli altri.