La felicità è stupida

Pensare di essere felici significa già non esserlo più. La felicità è un attimo fuggevole, che non appena si cerca d’afferrare, è già svanito. E’una sensazione irrazionale, istintiva, presuppone una buona dose di inconsapevolezza. Più semplicemente, la felicità è stupida.

Questo è un pensiero banale, direte voi, eppure di grande forza, sopratutto quando a cantarlo sono poeti di inusitata sensibilità, come il mio amato Esenin. “Eccola qui, la stupida felicità”, leggiamo nei suoi bellissimi versi. La felicità per il poeta russo è accostata alle cose semplici: le finestre che danno sul giardino, il tramonto quieto, una fanciulla che canta, il colore rosato e fresco delle guance. In queste piccole cose, nella tranquillità e nei panorami distesi che offre la natura il pensiero può diventare ottuso, lasciarsi cullare senza focalizzarsi su niente in particolare ed essere felice. Dunque la felicità è spesso vista come coincidente con la pace dell’animo, l’assenza di pensiero, la contemplazione di quel tipo di bellezza kantiana senza concetto (che maggiormente risiede, appunto, nella natura, stando al filosofo di Konigsberg).

Ecco la poesia di Sergej Esenin (in russo è molto più bella per la musicalità delle rime. La traduzione italiana è mia):

Вот оно, глупое счастье,
С белыми окнами в сад.
По пруду лебедем красным
Плавает тихо закат. 

Здравствуй, златое затишье,
С тенью берёзы в воде,
Галочья стая на крыше
Служит вечерню звезде.

Где-то за садом несмело,
Там, где калина цветёт
Нежная девушка в белом
Нежную песню поёт.

Стелется сизою дымкой
С поля ночной холодок
Глупое, милое счастье,
Свежая розовость щёк.

1918

Eccoti qui, stupida felicitá
Le candide finestre aperte sul giardino!
Sopra lo stagno, come un rosso cigno,
Nuota silente il tramonto

Salute, dorata quiete,
betulle che ondeggiano sull’acqua!
Uno stormo di taccole sul tetto
Porta il vespro alla stella.

Timidamente oltre il giardino,
Lá, dove fiorisce il viburno,
Una dolce fanciulla di bianco vestita
Va cantando una dolce canzone.

Come caligine grigio-azzurra si distende
Dal campo la frescura della notte…
Stupida, cara felicitá,
Fresco rosato delle guance!

Un’altra osservazione tipica degli scrittori e dei poeti, conseguente al presupposto che la felicità sia stupida, è l’ovvia constatazione che la felicità sia per lo più riservata agli stupidi, ai semplici di cuore, ai poco raffinati. Chi è particolarmente incline alla riflessione e alla sensibilità non può essere immune da una notevole dose di tristezza, scrive Dostoevskij. “La sofferenza, il dolore sono l’inevitabile dovere di una coscienza generosa e d’un cuore profondo. Gli uomini veramente grandi, credo, debbono provare su questa terra una grande tristezza.” E di nuovo Esenin (non cito l’intera poesia):

Грубым дается радость.
Нежным дается печаль.
Мне ничего не надо,
Мне никого не жаль.

Ai rozzi è destinata la gioia,
ai teneri d’animo la tristezza.
Non mi serve nulla,
niente mi suscita rimpianto.

D’accordo, pare proprio che la felicità sia propria di animi semplici, dunque appannaggio della maggior parte delle persone, eppure sembra così poco accessibile e democratica. Quasi nessuno si può definire felice. Forse la vera felicità, la più pura, è di una rarità estrema, è un lusso che non si concede quasi a nessuno, e comunque solo per qualche istante. Forse qui gli scrittori russi, associandola ai rozzi, si riferiscono alla serenità d’animo della quotidianità, il cuor contento delle persone leggere, semplici, lineari, poco pretenziose. Più la si ricerca, più essa sfugge, più si pretende da essa, più diverrà inarrivabile.

Ma siamo certi che la felicità più pura debba per forza coincidere con la serenità e la calma? Non sarà forse altrettanto definibile come tale quella botta di adrenalina ed emozione che danno le esperienze forti, rischiose, intense, per nulla quiete, quelle iniezioni di follia dalle quali ogni tanto ci si lascia trasportare, senza far tanto caso alle conseguenze? Certo, anche quel tipo di emozioni arrecano felicità, ma hanno un contraccolpo più drammatico, poiché il prezzo da pagare quando cessano è ritrovarsi abbandonati alla vacuità più totale. Sono esperienze che non lasciano nulla, ma che permettono di afferrare la vita per le redini, creando un contatto più intenso con la sua immediatezza. Per tornare a Kant: forse è un po’ la differenza tra il bello e il sublime. Il bello affascina e fa sorridere, il sublime spaventa, commuove, colpisce.

Che si voglia cercare la felicità nella calma di un porto sicuro, di affetti solidi o nella tempesta del rischio, nell’altalena folle delle passioni, una cosa resta invariata: l’antitesi alla razionalità che presuppone la felicità. In quanto emozione, sembra ovvio che richieda il meno possibile la partecipazione della riflessione, tuttavia non la esclude: è per lo più fatta di sensazioni estetiche (vista, olfatto, tatto e così via) ma non si riduce meramente ad esse. La partecipazione dell’intelletto degli esseri pensanti e senzienti è altrettanto necessaria per cogliere la gioia come tale, ma è, diciamo così, una partecipazione pigra, sopita, ottenebrata. Insomma, ci si rende conto d’essere felici, ma non occorre pensarci troppo.

Proverò ad andare oltre: in un certo senso, potrebbe essere presupposto della felicità avvicinare intuitivamente l’uomo al vero senso delle cose, a quel noumeno che secondo Kant resta in qualche modo velato. Un senso che è impossibile definire e determinare e che forse coincide con la squisita commistione tra un guizzo di visione del tutto e della sua controparte, il niente, il non essere, la muta assenza di significato razionale presente nella natura. Poiché sono piuttosto superba e lo sono in maniera del tutto impunita, concedetemi la libertà di auto-citarmi: “e una gioia stupida riempie l’anima di fresco nulla”. Forse è questo l’effetto della felicità. In qualunque modo si arrivi a provarla.

Sychkov, Ragazza che coglie fiori

Sychkov