Vita all’MGU di Mosca: ricordi di un’esperienza straordinaria

Com’era bella la vita da studenti universitari, per chi ha avuto la fortuna di potersela godere. La vita nell’obshezhite (dormitorio) dell’università Lomonosov di Mosca, invece, non era bella. Era qualcosa di più. Potrei dire che era eccezionale, e nello stesso tempo tremendamente desolante. Questo la rendeva необыкновенная, straordinaria (nel senso di non ordinaria, fuori da ogni possibile inquadramento).

La prima volta che vi andai, partii senza avere alcuna idea, se non nelle mie costruzioni immaginarie, di cosa fosse la Russia. Lo scoprii immediatamente, non appena una scalcinata Zhiguli mi portò dall’aeroporto al quartiere universitario, mentre cercavo senza successo di scambiare qualche parola in russo con l’autista uzbeko. L’università mi colpì per la sua solennità. Immensa costruzione stalinista, facente parte delle “sette sorelle”di Mosca, non può lasciare indifferenti, con quelle alte guglie austere che di notte sembrano i grattacieli di un fumetto. Mi sistemarono in quello che diventò, per me e per i miei nuovi amici del posto, il leggendario “sektor Ж”- ala della Lomonosov in cui generalmente sistemano gli studenti stranieri, venuti ad imparare il russo.

La mia camera, come tutte, era piena di polvere e aveva un letto troppo corto. Le lenzuola erano marchiate e timbrate come al militare. Per pulirla c’era solo la tipica scopa sovietica di saggina, quella che arriva all’altezza del polpaccio, di paglia rinsecchita, che invece di pulire, sporca ancora di più. Dividevo il bagno con la mia vicina, che il primo anno fu una composta inglese, e il secondo una scalmanata ragazza giapponese, che subito s’invaghì della guardia russa del settore, senza però poterci comunicare. Le loro turbolente nottate finirono con lui che bussava alla nostra porta in preda alla vodka e alla disperazione, perché lei non voleva più vederlo (alla fine, io e un’ucraina fummo costrette a scrivere in russo per la nostra giapponese cosa dire al telefono alla guardia per “mollarla”, e il modo in cui lei lo leggeva, con accenti a caso e senza sapere cosa stesse dicendo, fu così esilarante, che avevamo le lacrime agli occhi dal ridere). Ad ogni piano c’era una dezhurnaya, la classica signora russa di una certa età, dal corpo generoso ma dai modi burberi. Quando, bollendo un uovo nella cucina comune, mi versai inavvertitamente l’acqua bollente su una gamba, la dezhurnaya prontamente mi soccorse con il suo personale sistema: mi grattugiò una vecchia patata sporca sulla pelle sanguinante. Metodi poco raffinati, ma indubbiamente efficaci, visto che sono ancora viva.

Una delle scoperte più piacevoli furono le insegnanti di russo: la prima era la classica donna russa opulenta, gentile e protettiva come una mamma. Poiché la mia era una classe di assoluti principianti, ci parlava come ai bambini, ma non capivamo nulla ugualmente. Era esilarante sentire balbettare parole russe con tutti gli accenti possibili: francese, inglese, tedesco, olandese- ma il migliore di tutti fu il mitico Marco, veterano dell’MGU, che parlava un ottimo russo con inflessione catanese. Dell’obshezhite aveva fatto un appartamento, in cui si faceva fatica a camminare dalla quantità di roba ammassata in giro. Conosceva tutti i segreti dell’università, compresa la possibilità di farsi installare internet in stanza, chiamando l’”uomo ragno”. Era un ragazzino russo che per pochi rubli armeggiava con i cavi arrampicandosi fuori dalle finestre, e in 10 minuti il gioco era fatto.

Irina, la mia insegnante dell’anno seguente, era magnifica: anche lei con modi da mamma, ma più determinata; ci ripeteva fino allo sfinimento le coppie di verbi perfettivi e imperfettivi e gli aggettivi irregolari- la sua voce cadenzata risuona ancora nella mia mente, quando li uso. Irina ci raccontava dell’Unione Sovietica, di Tolstoj e di Visotsky, delle poesie di Esenin e di Tsereteli, il contestato autore georgiano della statua di Pietro I sul fiume. Sono ancora in contatto con lei, e tre anni dopo andammo a visitare il luogo natio di Dostoevskij alla fermata omonima del metro.

Le volte che in classe era malauguratamente il compleanno di qualcuno, ecco che bisognava per forza festeggiare: bigliettino d’auguri firmato da tutti in un russo corsivo che sembrava quello di una capra sotto anfetamine e il classico bivacco all’intervallo, con i pochi prodotti russi reperibili all’università, risalenti alla Perestroika: cioccolatini sciolti, salatini vecchiotti e l’immancabile rossiskoe shampanskoe (geniale il fatto che si chiami champagne!), che dire che sa di tappo è fargli un complimento, rigorosamente caldo.

Quello che cerco ancora oggi, tra le larghe vie moscovite, nei caffè e nei sottopassaggi, ma che ovviamente non riesco più a trovare, è l’irripetibile atmosfera che si era creata nell’università. È un quid magnifico e insieme terribile, perché ha già una nota malinconica ancor prima di divenire ricordo. Ha le corde della tristezza, è un varco per il pensiero vagabondo che cerca un modo per commuoversi e trovare profondità. Sono quelle serate passate nel cortile sotto le nostre camere, tutti in cerchio a bere vodka e altri intrugli, cantare e parlare in un russo stentato con studenti uzbeki, kazaki, daghestani; a sorprendersi per la stranezza di alcuni soggetti, tra cui il segaligno Iskander, un tipo uzbeko taciturno che le poche volte in cui parlava, vagheggiava aneddoti storici o aforismi in spagnolo; a sentire il suono della chitarra di Yerbol, che cantava le canzoni anni 70 di Viktor Tzoy (gruppo sovietico dei Kino) e sembrava che attraverso quegli occhi sottili vedesse ben oltre quello che le parole lasciavano intendere.

Sono quelle gite nel bosco a cuocere shashlyk (spiedini) su un falò, facendo giochi di gruppo in cui riuscivo ad indovinare qualche parola russa. Sono quelle giornate dopo le lezioni a girare per l’Aleksandrovskij Sad con la mia amica olandese Celine, dove ogni monumento, ogni statua sembrava incartata d’un rosso lucente, tutto sembrava accessibile seppure sconosciuto. Per noi non esisteva alcun limite, alcuna minaccia in quella gigantesca Mosca che a volte inghiotte la gente, in cui trapela il latrato degli ubriachi e dei mendicanti, che procede come un carro armato dritta verso la sua evoluzione, schiacciando incurante, sotto le sue ruote, foglie e fiori intorno. Sono quei pomeriggi a ridere delle buffe tradizioni russe con i miei amici italiani Martina, Giulia e Fabio, a cercare di comporre una canzone rap sul “sektor Ж”; è quella semplicità di una vita in un mondo a parte, in cui il protagonista era il mitico chainik (bollitore per il the), fatta di fallimentari tentativi di cucinarvi del cibo dentro, o di scaldare l’acqua mischiandola a quella gelida in un catino per farsi la doccia, perché per un mese mancò l’acqua calda dall’università (tubature in ristrutturazione, sai com’è).

E allora quel letto di Procuste, il più scomodo in cui mi capitò di dormire per 3 lunghi mesi, si trasformò senza esitazione nel più bel baldacchino di un albergo di lusso, perché ogni notte, quando mi coricavo là dentro agli orari più improbabili, nella mia mente risuonavano gli echi di una vita parallela, immersa nel maestoso squallore sovietico, sublime perché vissuto con pochi pensieri; sentivo ancora il sapore speziato delle terre dell’Est, con la loro ricca tradizione che si portano dietro, come il chapan (cappotto tradizionale uzbeko), appeso ad impolverarsi nella camera di Iskander; e allora, un senso ineffabile di intuizione profonda mi pervadeva, e alle gambe pesanti, costrette a piegarsi contro il mobile di legno vecchio, si giustapponeva una pienezza d’animo leggera, che neanche il mal di schiena del mattino riusciva a svuotare.

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2 Risposte a “Vita all’MGU di Mosca: ricordi di un’esperienza straordinaria”

  1. Sottoscrivo ogni parola di questo tuo articolo. Tra l’altro, sto scrivendo proprio dalla stanzetta dell’obshezhite moscovita di cui parli! La dezhurnaya, l’immancabile chainik, i boccioni di acqua sul pavimento…nulla sembra essere cambiato)Un’esperienza unica e bellissima.
    Complimenti per il tuo blog, sempre molto interessante e stimolante!
    Un saluto da Mosca

    1. Grazie mille, cara Elisa. Mi fa molto piacere che tu legga e apprezzi il mio blog. Se ti andasse di raccontare di più della tua esperienza all’MGU, fammi sapere! Posso pubblicare un’intervista sul mio blog, mi farebbe piacere. Un saluto a te)

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