La sconosciuta. Oggi ha ancora fascino l’anonimato?

Una donna misteriosa, sconosciuta, mai vista. Una donna cui non si sa dare un nome, che si vede di sfuggita per la strada. Quell’archetipo di donna riveste un fascino particolare nell’immaginario comune. Nell’epoca odierna della celebrazione della celebrità, dell’incubo dell’anonimato, del qualunquismo e protagonismo forzato, possiamo dire che il fascino della “sconosciuta” è immutato?

Prendiamo un celebre dipinto del secolo scorso (1883), che si può ammirare nella mia galleria preferita: la Tretyakovskaya di Mosca. Il pittore è Kramskoy, il titolo del quadro è proprio “La sconosciuta” (in russo: неизвестная, in senso di: non nota, non famosa, anonima). La donna, vestita alla moda con cappello di piume e guanti di velluto, è colta mentre passeggia in calesse sul ponte Anichkov di San Pietroburgo. Lo sguardo è fiero, misterioso e forse con una nota di inquietudine. La donna guarda lo spettatore in maniera penetrante, e quel volto leggermente proteso verso l’alto, che sembra sfidare e di certo reggere lo sguardo altrui, è forse ciò che ha sancito il grande successo del dipinto. La sconosciuta è divenuta, paradossalmente, molto nota, pur mantenendo la sua aura di anonimato intrigante. E’ ormai un’icona, un tòpos. Lo sfondo è sbiadito, ovattato di una nebbia bianca, e conferisce ancora più mistero al dipinto, come se quella donna facesse parte dei ricordi offuscati di ciascuno di noi.

Un altro paradosso del quadro è la sua accezione fotografica. La donna sembra colta dal fugace obbiettivo di un fotografo, mentre ci troviamo di fronte ad un sapiente dipinto che presuppone la posa.

неизвестная

Spesso la donna di Kramskoy viene chiamata Незнакомка, per metterla in parallelo con la poesia dal titolo omonimo di Aleksandr Blok (1906). Eccola (la traduzione è mia):

Ogni sera, sopra i ristoranti/ l’aria è calda, selvaggia e sorda/ e governa le grida d’ubriachi/ il pestifero spirito primaverile./ Lontano, sopra i vicoli polverosi /sopra la noia delle case fuori città/ splende d’oro leggero l’insegna di una panetteria/ e risuona il pianto di un bambino./ E ogni notte, dietro le barriere, scuotendo le bombette/ tra i fossati passeggiano con dame/ uomini navigati e spiritosi. / Sopra il lago scricchiolano gli scalmi/ e s’ode uno strillo femminile/ e nel cielo, abituato a tutto/ s’inclina un disco senza senso (della luna?)./E ogni sera il mio unico amico/ è riflesso nel mio bicchiere/ e da un liquido agro e misterioso/ è come me, umiliato e stordito./ E ai tavoli vicini/ stanno impalati i lacchè assonnati/ e gli ubriaconi, con occhi di coniglio/ gridano: “In vino veritas!”./ E ogni sera, all’ora prestabilita /o forse è solo un sogno?/una figura di donna, avvolta nella seta,/ si muove nella nebbia dalla finestra./ E lentamente, avanzando tra gli ubriachi,/ sempre senza compagni, sola/esalando profumi e nebbia/ lei si siede alla finestra./ E alimentano antiche credenze/ le sue sete elastiche/ e il cappello con le piume del lutto/ e la stretta mano inanellata./ e avvinto dalla strana vicinanza/ guardo attraverso il nero voile/ e scorgo una riva affascinante/ e un’affascinante distanza./ I profondi segreti a me affidati/ qualcuno mi ha consegnato un sole/ e tutte le mie pieghe irradiate della mia anima/ l’aspro vino ha setacciato./ E le piume di struzzo ricorrenti/ ondeggiano nel mio cervello/ e insondabili occhi azzurri/ fioriscono sulla riva lontana./ Nella mia anima giace un tesoro/ e la chiave è destinata solo a me/ hai ragione, bestia ubriaca! / lo so: “la verità è nel vino”. 

La poesia è splendida e ci sarebbe da parlarne per ore. Farò soltanto due osservazioni brevi: la prima, è che è curiosa l’espressione “in vino veritas”, che in russo si traduce con истина в вине: “la verità è nel vino”, ma anche: “la verità è nella colpa”. La parola вина (vinà), colpa, assomiglia molto a вино (vinò), vino, a sottolineare anche la curiosa correlazione tra vino e colpa. La seconda osservazione riguarda la donna sconosciuta che al poeta pare di scorgere, avvolta di seta, nelle serate “calde e selvagge”, in cui il vino ottenebra le menti. Le sue piume sul cappello, la sua aura ovattata di profumo e nebbia fumosa la rendono non a torto accostabile a quella del dipinto di Kramskoy, quasi come se ne fosse la raffigurazione più perfetta.

Mi piace pensare che quest’immagine inebriante di donna sconosciuta, forse mai esistita se non in sogno, e perciò tanto ricorrente e familiare, rivesta ancora un discreto fascino nella nostra epoca. Secondo voi è così? La mia, più che altro, è una speranza. La speranza che nel mondo delle comparse del Grande Fratello, di anonimi avidi di notorietà fine a se stessa, nel mondo in cui chiunque può pubblicare sul web qualunque cosa ed emergere così dall’anonimato, in maniera bieca e spesso discutibile; nella nostra società nascente, in cui sembra che l’incubo peggiore sia restare sconosciuti, si conservi ancora il valore del fascino dell’anonimato, del mistero che porta con sé, e diventi qualcosa di prezioso anche perché sempre più raro. E’ dolce pensare che si possa ancora fantasticare, come cantava Fabrizio De Andrè nella bella canzone “Le passanti“, di una donna (o un uomo!) che si scorge passare per qualche istante.

A quella (donna) quasi da immaginare/ tanto di fretta l’hai vista passare/ dal balcone a un segreto più in là/e ti piace ricordarne il sorriso/ che non ti ha fatto e che tu le hai deciso/
in un vuoto di felicità.” “Allora, nei momenti di solitudine /quando il rimpianto diventa abitudine,/ una maniera di viversi insieme,/ si piangono le labbra assenti /di tutte le belle passanti/che non siamo riusciti a trattenere.”