Parole su Donetsk, parole sul mondo

“Non si può tacere. Non si può ignorare quello che sta succedendo a Donetsk.” Una frase che si sente dire, anche se non tanto spesso quanto la sua banalità potrebbe far supporre. Più di 100 morti, i voli all’aeroporto sono fermi, bruciano i palazzi, la rete telefonica è bloccata, sono morti giornalisti, tra cui un ragazzo italiano. Kiev dichiara che non cesserà l’assedio della città finché non avrà sterminato tutti i terroristi presenti. Ma quali sono esattamente i terroristi? Si preannuncia una catastrofe umanitaria. La guerra civile è già in atto. Eppure, tanti neanche sanno dov’è Donetsk. Di questo hanno colpa? Non posso rispondere subito. Pensiamo a quello che succede (ed è successo) in altre parti del mondo: in Cecenia, in Iraq,in Israele, in Siria, e così via. Bisognerebbe pensare a tutto, ma il mondo è troppo grande per riuscire ad abbracciarlo, a capirlo. Qualcosa ne rimane sempre fuori. Questa è una scusa dietro cui ci nascondiamo per non vedere, perché ciò che vediamo è scomodo e fa male. Parlare ed informarsi è già qualcosa, ma fa rabbrividire innanzitutto l’espressione “è già qualcosa”, ma soprattutto come si ignorino le vicende di certi paesi del mondo che a malapena sappiamo collocare sulla carta geografica.

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Noi siamo il centro del nostro mondo. Nient’altro. Potrebbe essere altrimenti? “Quando ho il mal di stomaco, ce l’ho io, mica te, o no?” questo lo canta Vasco Rossi, ma Wittgenstein diceva prima di lui qualcosa di non dissimile, benché con parole più eleganti. Sosteneva che il mal di stomaco sia una sensazione privata, incomunicabile con il linguaggio. Ecco il cul de sac dei sofismi filosofici: non posso parlare di qualcosa, perché c’è un gap profondo tra il linguaggio e il mondo, ci sono un’infinità di fraintendimenti fuorvianti.

Incomunicabilità. E’ questa la ragione del silenzio o del chiacchiericcio inutile, del ronzio di banalità sterili che si sentono dire riguardo l’attualità dei conflitti? Potrebbe essere una delle ragioni. La ragione principale forse è l’egoismo, dal quale consegue ignoranza (nel senso di ignorare qualcosa, di non curarsene).

Io mi interesso del casino che si è abbattuto all’improvviso su Donetsk soltanto perché l’ho vista. Perché ci ho vissuto per quasi 4 mesi, perché conosco tante splendide persone che ci vivono; perché Donetsk mi piace e ho lasciato una parte di me, laggiù nel Donbass. Mi rendo conto di quanto una visione del genere sia parziale, selettiva, sia dettata dai propri gusti ed esperienze personali. Se questa guerra fosse scoppiata in un paese che conosco meno, non mi avrebbe toccato così tanto. Le cose ci sconvolgono solo quando ci toccano da vicino. Dobbiamo vedere le lacrime, sentire le urla, devono sbatterci in faccia le foto dei cadaveri con il fazzoletto per tenere la bocca chiusa durante il rigor mortis, perché accada qualcosa dentro di noi e ci spinga a scomodarci e aprire la nostra bocca ancora viva. Per smuovere il nostro interesse e farci leggere quotidiani e dossier su una nazione, su una guerra, è necessario che qualcosa di quel luogo ci incuriosisca. Altrimenti, la gente può morire, e nessuno ne parla. La gente, infatti, muore, e continuerà a farlo. E in molti continueranno ad ignorarlo. Amen.

Quindi? Niente. Questo articolo fa schifo. Vi aspettate un finale positivo, una proposta, una soluzione? Potrei dire che ci si dovrebbe accontentare del fatto che ognuno abbia un interesse o un amico su Facebook da qualche parte del mondo, così da informarsi e condividere opinioni su una nazione in cui scoppia un conflitto? Già solo la parola “accontentarsi”, “condividere opinioni” mi disgusta. Il nostro è il mondo dell’opinione, ma sciocca e non richiesta. Meglio il silenzio? No, mai. Le parole, del resto, sono solo parole. Cul de sac. Uroboro, il serpente che si morde la coda.

Lascio parlare le immagini, che hanno un potere più forte della parola nel lasciare attoniti.

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Qualcosa però lo devo pur dire. Dico che sono addolorata per quello che sta succedendo,  che penso alle persone che abitano in un posto non sicuro e hanno paura per le loro vite e quelle di chi amano. Donetsk è vuota: tutti stanno scappando in treno a Kiev o in altre città. Non posso pensare che la cosa si risolva a breve e a “vodka e pelmeni” (per non dire a tarallucci e vino). La mia opinione sul conflitto, sui filorussi o i nazionalisti, sulla gente comune che vorrebbe stare tranquilla, non interessa a nessuno. Non vi biasimo. Direi solo banalità (anzi, le scriverei, il che è pure peggio, perché scripta manent). Ne scriverò una colossale: l’Ucraina è in un guaio enorme, e comunque vada a finire, ne uscirà distrutta. Il federalismo è la soluzione? La repubblica indipendente del Dobass potrebbe portare davvero ad un miglioramento, e per chi? Per l’Ucraina, per la nuova repubblica o per la Russia? Queste domande sono retoriche. Non ci sono risposte, solo amarezza. Amarezza senza redenzione, come nei racconti di Chekhov, in cui lui dipinge un affresco di una situazione e non giudica, non le regala neppure un finale. La lascia in sospeso, e il lettore dovrà fare le sue considerazioni e dedurre la conclusione più plausibile. Razionalmente si possono fare una miriade di congetture sulla situazione ucraina. Irrazionalmente, l’amarezza sommerge l’animo e lo lascia senza parole. Nella solitudine dell’impotenza, nella rabbia del disfattismo. Lo lascia oscillare tra cinismo e idealismo patetico, che già solo a pronunciare le parole “dobbiamo agire, dobbiamo parlarne, non si può tacere, possiamo spiegare, cambiare le cose”…viene da ridere. A quel punto, sopraffatti dalla propria piccolezza, scatta il meccanismo di autodifesa del: “ok, adesso che ho pensato troppo, esco a bermi una birra con gli amici e parlare del nuovo film, della ricetta della crostata e del bla bla bla.”

E allora ognuno stia solo, o in compagnia di quattro amici, sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. E sarà subito sera, e forse ciò sarà un bene.

Eppure, qualcuno può gridare. Può farlo. Deve.