Parlo, dunque sono: pensare “alla russa”

C’e’una fortissima correlazione tra pensiero e linguaggio, spesso difficile da accettare. Il primo determina e stabilisce il secondo, eppure ne viene limitato enormemente, al punto che spesso sembra che i veri “padroni” dei nostri pensieri siano proprio loro: la struttura grammaticale delle frasi, le parole, i tempi verbali. Tutto ciò potrebbe suonare scontato, ma è soltanto a partire dal secolo scorso che questo aspetto e’stato indagato a livello scientifico, filosofico e psicologico (pensiamo a Wittgenstein come capostipite di queste interessanti indagini).  Recenti studi, come quello condotto sulla popolazione dei kuuk(aborigeni australiani) da Lera Boroditsky (professoressa di Psicologia e Neuroscienze a Stanford) e Alice Gaby lo confermano: I kuuk definiscono lo spazio con criteri relativi ai punti cardinali e non con le consuete locuzioni “destra”, “sinistra”, “avanti”, “indietro”, il che presuppone che prima di parlare si debba conoscere la propria posizione nello spazio (per poi dire: vai a nord-est, nord-ovest e così via). E’ stato dimostrato che, come conseguenza di questa struttura linguistica, anche la loro concezione del tempo è diversa da quella degli inglesi, ad esempio: dispongono gli elementi in progressione temporale da est ad ovest, a seconda della posizione spaziale in cui si trovano quando li valutano. La loro conoscenza, quindi, influenza la rappresentazione mentale che hanno dello scorrere del tempo.

Il fatto che il modo di comunicare sia un limite e che i limiti imposti da una determinata lingua dettino persino il modo in cui pensiamo e’spesso giudicato inaccettabile. A rigor di logica, poiché Il linguaggio è una convenzione umana nata proprio dal pensiero, sembrerebbe assurdo pensare che abbia un’influenza sul pensiero stesso, al punto di dettarne in un certo senso gli schemi mentali. Senza contare che intervengono anche le condizioni ambientali a determinare la scelta di un tipo di linguaggio e di conseguenza di un tipo di pensiero in un popolo. Eppure la domanda, posta in questi termini, ha poco senso. E’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina! E’ chiaro che il linguaggio è stato creato dal pensiero umano come strumento di comunicazione ed espressione del pensiero stesso, ma la sua lenta e collettiva evoluzione è sconnessa dalla sua, altrettanto progressiva e collettiva, genesi (strumentale quanto si vuole, ma pur sempre limitata al momento storico in cui è avvenuta). Voglio dire che se il linguaggio si è evoluto, arricchito, adattato alle epoche storiche (oggi l’italiano non esattamente come quello volgare del Quattrocento) con neologismi e nuove locuzioni, è anche vero che la sua base, la struttura grammaticale che ne costituisce le fondamenta, non è cambiata di molto negli ultimi secoli. La grammatica di una lingua produce limitazioni e restrizioni nel pensiero del popolo che la utilizza: lo indirizza e lo imbriglia. E’chiaro che non ci esprimiamo esattamente come vorremmo o potremmo: ci atteniamo a regole linguistiche che ci vengono tramandate e insegnate nel corso dei secoli, e che senz’altro hanno un’influenza non irrilevante nella modalità del nostro pensiero. Non a caso molti studiosi individuano nel logos occidentale un leitmotiv dato proprio dalla sua imprescindibile connessione con il linguaggio indoeuropeo attraverso il quale viene espresso: la nostra logica è tale perché veicolata da uno specifico linguaggio. Il linguaggio è, di fatto, l’unica modalità in cui possiamo comunicare il nostro pensiero. La sua importanza, oltre ad essere cruciale, è necessariamente anche un grosso limite. Vediamo alcuni esempi.

Prendiamo la popolazione dei mundrukuku, indigeni che abitano in Amazzonia brasiliana: il loro peculiare modo di contare è oggetto di studio del linguista Pierre Pica ed è stato ripreso nel bellissimo saggio “Il meraviglioso mondo dei numeri” di Alex Bellos. I mundrukuku non hanno parole per indicare i numeri oltre il 5, perché effettivamente a loro non serve contare oltre quella cifra (non sono infatti in grado di compiere operazioni di sottrazione anche elementari). Altre tribù, addirittura, dalfabetistinguono solo tra uno, due e molti. L’aspetto interessante è che la visualizzazione mentale che hanno i mundrukuku dei numeri distribuiti su una linea è logaritmica, invece di essere distanziata in modo uniforme come per gli americani adulti. Significa che, mano a mano che i numeri diventano più grandi, si riduce la loro reciproca distanza spaziale: i mundrukuku pensano i numeri basandosi sui rapporti tra quantità (l’1 sta 5 volte nel 5, ma il 5 solo 2 volte nel 10). Il dato ancora più interessante è che alcuni esperimenti condotti sui bambini hanno riportato dati simili alla disposizione spaziale dei mundrukuku: sembra dunque che si nasca con un’idea logaritmica della distribuzione dei numeri, e che solo verso la seconda elementare si corregga questa visione, adeguandosi a quella standard.

Analizziamo cosa accade nella lingua russa per quanto riguarda ‘l’aspetto delle quantità. In russo si usa il caso nominativo per concordare i nomi degli oggetti con cardinalita’ in cui compare la cifra 1 nelle unità, il genitivo singolare per quantità da 2 a 4, il genitivo plurale per quantità dal 5 in su, compresa la specificazione che segue l’avverbio “molti”. Diremo dunque: 1 стакан (lett: un bicchiere), 2, 3 o 4 стакана (lett: 2,3,4 di bicchiere),5/много стаканов (lett: 5/molti di bicchieri). Anche in questo caso, dunque, sembra esserci una precisa forma mentis che distingue tra la conta fino al 4 ma che dal 5 in poi uniforma le quantità sotto il concetto di “molti”, mentre la singolarità è trattata a parte, come un’entità a sé (concetto filosoficamente e scientificamente non privo d’interesse). Questo è in analogia con gli studi condotti sulla capacità cognitiva umana di fare una stima delle quantità cui è sottoposta mediante la visione. I tempi di reazione per contare oggetti superiori al numero di 4 diminuiscono drasticamente: sembra esserci proprio una spaccatura dal 4 in poi, oltre cui il nostro giudizio sulle quantità non è più esatto ma diviene approssimativo.

Ancor più interessante è ciò che riguarda il rapporto tra la lingua russa e la temporalità. Com’è noto, nei verbi russi si distingue tra due coppie aspettuali: il perfettivo e l’imperfettivo, che si applicano a diversi tempi verbali: l’indicativo, l’infinito, il passato e così via. L’imperfettivo indica un’azione in svolgimento oppure ripetuta (accompagnata quindi da avverbi come “spesso”, “ogni giorno”, “di rado”, “mai”), mentre il perfettivo indica un’azione compiuta una sola volta o finita. Dunque ha grande rilevanza, in russo, la temporalità connessa ad un’azione, al punto che dall’uso dei verbi siamo già in grado di comprendere queste informazioni. Allo stesso modo, per i verbi di moto c’è una particolare distinzione (non si ritrova in nessun’altra lingua, è una peculiarità assoluta del russo) tra quelli che indicano un movimento di andata e ritorno o di sola andata (espressi, di nuovo, dall’imperfettivo o perfettivo) e tra verbi che indicano l’andare a piedi o con altri mezzi di locomozione (ad esempio, per andare a piedi si usa generalmente il verbo идти/ходить, mentre se ci si muove con altri mezzi- bicicletta, autobus, tram, metro, macchina, aereo, treno- si usa ехать/ездить. Possono però sorgere dei dubbi: se vado da un amico con il metrò e poi a piedi e poi racconto di esser stata da lui ieri sera, devo usare: “я сходила” oppure “я съездила”? In questi casi, in russo si dà maggiore importanza al fatto di andare a piedi e dunque si usa идти/ходить in quanto la destinazione, cioè la casa dell’amico, si trova nella stessa città a breve distanza. Il verbo ехать/ездить si usa principalmente per indicare viaggi di grossa distanza, che presuppongono l’uso di macchina/aereo/treno). Inoltre ha grande importanza la scelta dei prefissi (приставки) che precedono il corpo del verbo (es: по, за, про, под…abbinati, per esempio, alla coppia verbale идти/ходить, “andare”: походть, заходить, проходить, подходить..). Ogni particolare prefisso esprime una precisa sfumatura linguistica che dà un diverso significato all’azione: по- generalmente significa “per un po’”, за- significa “dietro” ma anche “entrare e uscire velocemente”, про- indica profondità, под- indica l’avvicinarsi a qualcosa, вы- allontanamento, в- avvicinamento…

Eccoci ritornati alla domanda di partenza: queste strutture linguistiche hanno una qualche influenza sul modo di pensare dei russi (e, ovviamente, per linguaggi differenti, di tutti gli altri popoli)?

Il fatto che in russo la parola “amore” e “letto” sia al femminile, ad esempio, o che “sedia” sia maschile e “mela” e “tempo” neutro, ha una qualche influenza sul loro modo di figurarsi mentalmente questi concetti? A quanto pare, sì. Gli studi della Boroditsky hanno confermato che persone parlanti lingue diverse si immaginano oggetti seguendo le caratteristiche di genere della loro lingua madre (basti pensare alle classiche raffigurazioni pittoriche di concetti astratti come la morte o la vittoria, generalmente femminili anche nella loro trasposizione concreta). Un altro esperimento ha dimostrato che anche riguardo la percezione dei colori siamo influenzati da quante e quali parole abbiamo per descriverli. Ad esempio, in italiano come in russo distinguiamo tra “azzurro” e “blu”, ma in inglese quelle sfumature di colore rientrano nell’unica parola “blue”, e questo influenza i tempi di reazione nel discriminare le sfumature di colore degli inglesi (molto più lunghi che nei russi).

Sulla scia di questi esperimenti, è possibile dunque ipotizzare che i russi abbiano una percezione mentale della temporalità più ricca di altre popolazioni. Ugualmente si può dire delle varie sfumature espresse dai prefissi: i russi sono più specifici nel descrivere un’azione perché effettivamente la pensano, se la raffigurano in maniera più specifica. Potremmo andare avanti all’infinito nella nostra indagine psico-linguistica. Potremmo ipotizzare che, se i russi sorridono poco e sempre a bocca chiusa (mostrare i denti è considerato volgare, da animale) sarà forse perché la parola улыбка (verbo: улыбаться), approdata nella lingua russa in epoca recente (non prima del 16-17 secolo) da espressioni dialettali, era connessa soprattutto con l’idea della derisione, dello scherno? C’è di più: inizialmente la parola aveva il significato di mostrare i denti come un teschio, come un cane, data la sua vicinanza con il verbo скалить? La sua radice è connessa con la parola лоб, fronte, e con parte alta del cranio degli animali (лыбонь). Senza contare che il prefisso у- (u), conferisce alle parole che lo seguono un significato negativo connesso all’annullamento, la rimozione, il portare gli oggetti ad uno stato indesiderato. Il sorriso allora è vicino al ghigno, al nulla: ci vuole poco per trasformarlo nell’inquietante sorriso del diavolo.

E’ proprio il caso di citare il vecchio detto cartesiano, ma con un leggero ampliamento: dico, ergo sum. Parlo, dunque sono.

Nota bibliografica:

-Alex Bellos, “Il meraviglioso mondo dei numeri“, Einaudi, 2011

-“Scienza. Next Generation”, a cura di Max Brockman, Il Saggiatore, 2009