Marin e il topo- un racconto

Succede raramente che io riceva apprezzamenti su quello che scrivo, o che susciti qualunque tipo di commento, specialmente da persone sconosciute. Mi ha dunque fatto immensamente piacere ricevere un commento molto positivo da Francesca, (una ragazza?donna? che non conosco), che mi ha scritto tramite il blog di aver letto un mio racconto breve, “Marin e il topo”, e di esserne rimasta particolarmente colpita.

Sono talmente lieta di quanto segnalato da Francesca, che ho deciso di pubblicarlo qui. E’un racconto particolare, a cui sono legata perché è tratto da una storia vera. Un racconto che parla di immigrazione, guerra in Ucraina, frustrazione, speranze, e che va molto più in profondità, a livello simbolico, di quanto il linguaggio semplice con cui è scritto possa far presupporre ad una prima, fugace lettura. Il racconto ha partecipato al Premio Letterario 2016 “Il giardino di Babuk- Proust en Italie”, classificandosi al quinto posto.

Spero che piaccia anche a voi. Buona lettura!

 

MARIN E IL TOPO

Bisogna scovarlo partendo dalle sue tracce. So che è qui, da qualche parte, nascosto negli anfratti. Forse ogni notte, quando dormiamo, sente l’odore del nostro respiro, i suoni gutturali del nostro sognare.
Marin disse al dottor Riva che il topo doveva avere una tana sul terrazzo. Gli era parso di sentirne lo squittio mentre puliva il tavolo. Non c’era da preoccuparsi: i topi di città sono innocui. Li odiano solo per repulsione.

-Hai trovato il topo dai Riva?- gli chiese Kira quella sera, sparecchiando la tavola.
-Non ancora, ma lo troverò. Sai quanti ne acchiappavo in campagna? Architettavo trappole con gli amici d’infanzia. Ne sto costruendo una.
-È per questo, che torni a casa a mezzanotte? Progetti trappole per topi?
Marin annuì, sbattendo gli occhi color cenere.
Un full. Perché diavolo non ci aveva pensato. Come si fa a puntare cinquanta euro con solo un tris in mano? -Dove sono i soldi? Il dottore ti ha pagato, vero?
-No- rispose lui, schiarendosi la voce.
-Lo chiamo io domani- esclamò Kira.
-Non serve, glieli chiederò io. Se riesco a trovare il topo, il dottor Riva mi ha promesso un aumento di 200 euro.
-Per un topo?
-Per loro è intollerabile. Le bambine e la moglie non sono tranquille.
-E’ solo un topo, nient’altro.
-Già. Solo un topo.

Quando Marin era emigrato dalla provincia di Donetsk conosceva poche parole in italiano, la sua preferita era “certo”. Dicevano che in Italia si vive bene, c’è lavoro, la gente è ospitale. Da quando abitava nella periferia di Milano con sua moglie Kira, a stento conosceva i suoi vicini di casa. La palazzina non era dissimile da quella in Ucraina ma meno riscaldata d’inverno. Il cibo era buono se pur con troppi carboidrati per il suo stomaco. Il lavoro c’era, ma in nero, altrimenti come pagare le spese?

In Italia ci sono vicoli stretti pieni di ciottoli e tavolini che la sera celano la luna e brillano di candele. I taxi costano più dei voli, gli uomini paiono donne e viceversa. Ci sono mille tipi di formaggi, troppi dialetti e una sola lingua. Le differenze vanno da nord a sud, non da est ad ovest. Tutti si lamentano delle tasse, della politica e del lavoro, ma è un chiacchiericcio mite e leggero. L’Italia è uno stivale che tutti vogliono calzare, ci si specchiano nelle vetrine, poi ne trovano mille difetti: è stretto, buffo, fiacco, ma alla fine lo comprano ugualmente perché è bello.

Qualche anno dopo, nella sua città era scoppiata la guerra, ad aumentare il suo senso di esilio. Bisogna avere un posto in cui fare ritorno, che non si può non amare, come il calore odoroso della zuppa preferita, il sapore brusco degli ortaggi rubati ai contadini; come il proprio figlio, lasciato a Kiev con i nonni, fuggiti dalle case di Donetsk sotto il tiro delle granate.

Ci uccidiamo tra fratelli per sceglierci il padrone. Ci hanno inculcato l’odio parlando di una patria dove moriremo senza viverci mai. Odio anche me stesso, le notti in cui bruciano gli occhi e i sogni, dove rischi e speri e poi tutto ti viene tolto. Pensavi che la felicità consistesse in un tintinnio di gettoni. E forse, da qualche parte ci attende, incartata come un regalo. Prima o poi si trova tutto, una vecchia foto, il coraggio, la voglia. Il topo. Quel dannato topo. Se lo trovo, significa che posso fare ciò che desidero. Bisogna cercare, puntare, afferrare. Che altro potrei fare?

-Come sta tuo figlio?- chiese la signora Riva a Marin.
-Roman è con la nonna, si sono spostati a Kiev. Lo sentiamo per telefono. Compie cinque anni tra poco.
-Andrete a trovarlo?
-Se torno in Ucraina, mi chiamano a combattere. È meglio portarlo qui. Stiamo tentando da anni di procurargli il Visto per l’Italia.
-Mi dispiace molto. Dimmi del topo, ora. Sei sicuro che siano sue le tracce sul terrazzo?
-Certo. Si nasconde, ma se agiremo con tattica, si fiderà di noi e uscirà allo scoperto.
I topi sono come la mia gente. Qualunque cosa si faccia per annientarli, sgattaiolano via e riemergono. Il Donbass rinascerà un giorno, come i topi. Quelli sono cavie, non vittime. Per loro non si prova pena. A nessuno importa della loro vita. Neppure a loro stessi.

-Cos’è quell’aggeggio?- gli chiese il dottore la settimana seguente.
-Una trappola per topi.
-Bene, mettila sul terrazzo. Perché hai i guanti?
-Sentirebbe il mio odore. Non è stupido. Ah, mi scuso, ma avrei bisogno di un anticipo per questa settimana. Mio figlio arriva dall’Ucraina, finalmente. Abbiamo ottenuto il Visto ma è costato molto.
-Che bella notizia. Non c’è problema, vado a prendere il portafoglio. Tu pensa al topo.
A che mi serve pensare? Tu non sai nemmeno di essere un topo. Ho la coscienza per tormentarmi ed essere disgustato da me stesso. Per sapere che non sono eterno, e per non desiderare nient’altro con più struggimento. Eppure, non puoi vincere contro di me. Senti che ti sto cacciando? Cadrai nella trappola, la fame è più forte della paura. Verrai a cercare cibo, ti infilerai proprio qui dentro. Coraggio.
-Conta pure, dovrebbe essere giusto- disse il dottor Riva, allungando a Marin alcune banconote.
Sono bellissime, nuove. Odorano di pagine mai voltate. Quasi mi dispiace inserirle nella macchinetta del video poker. O forse stasera mi sento più da black jack.

-Che fai, non dormi? Si può sapere cosa ti tormenta in questi giorni?- chiese Kira a Marin quella notte.
-Sarà il cappuccino.
-Siamo in Italia, non devi berlo dopo cena!
-Dovrei bere quei sorsi neri, amari e corti che chiamano “espresso”?
-Marin, sono stufa. Mi manca troppo Roman, chissà quando lo rivedremo. Ho solo te qui ma non ci sei mai. Dai signori Riva finisci di fare le pulizie alle sei. Perché tardi sempre? E quando mi dici che eri a bere con Boris perché non sai di birra?
-Cosa vuoi insinuare?
-Dimmelo tu. Dove sono i soldi che guadagni? Non posso pagare sempre io l’affitto.
Quel progetto di scala al re. Come sarebbe stata bella, luminosa come una fila di perle nere su un collo di cipria! È svanita, maledizione. Come il topo.
-È colpa del topo.
-Come?
-È incredibile che la mia trappola non funzioni. Ne prendevamo cinque al giorno in quel modo.
-Non riesci a parlare d’altro. Perché ti ossessiona tanto? Se è lì, cadrà nella trappola, abbi pazienza. Non cambiare discorso. Ti ha pagato il dottore o no?
-Se non trovo il topo, lui non mi paga.
-Cosa c’entra il topo con il tuo stipendio?
-È così. Sua moglie continua a chiedergli se è stato catturato.
-Non ti capisco più, Marin. Mi sembri impazzito, assente.
Sì, sono assente, folle! Se solo saltasse fuori, mi mostrasse com’è! Il giorno che comparirà, vincerò. Sarà il mio giorno fortunato, dovrò giocarmi una bella somma. Dove si nasconde? Maledetto!

-Che novità? Sembra che la trappola non abbia funzionato- gli disse il dottore.
-Bisogna ricorrere a un sistema drastico- rispose Marin.
Dev’essere eliminato. È l’unica cosa da fare. Devo usare del veleno per topi. Lo metterò ovunque lui possa passare. Aspetterò qualche giorno e cercherò il suo cadavere. Ha invaso un territorio non suo, porta sporcizia e scompiglio. Senza di lui saranno salvi. Saremo liberi.

-Passami Roman- chiese Marin la domenica pomeriggio, al telefono con la suocera.
-Allora, viene?- chiese Kira, strattonandogli il braccio.
-No, non ha tempo- le rispose, mordendosi il labbro. Aveva un sapore amaro come ciò che non può tornare.
Abbiamo perduto Roman? Non va ancora scuola ma non ha tempo di parlare con noi. Finirà per detestarci. Il tempo gli è più caro di noi, è tutto ciò che gli è rimasto. Chi ha soldi ha tempo. Per questo li voglio, per comprare il tempo in cui potrò rivederlo. Quello che passo qui non conta. L’unico momento che ha valore è quando piazzo la mia puntata e attendo un segnale dal caso, sullo schermo. Ciò che guadagno non basta mai. A Dio non chiedo niente, all’Italia non più di tanto; al caso sì, perché mi risponde sempre. C’è qualcuno che vince, una volta su un milione. Se non si prova a giocare come si può vincere? Quando vincerò, sarò felice. Quando quel topo apparirà.

Marin controllò meticolosamente le tubature, nei giorni a seguire. Incredibile, nessuna traccia del cadavere di quella bestia! Forse si era avvelenato ed era andato a morire altrove, ma come poteva dirlo al dottor Riva senza averne la prova? Non restava che attendere. Se le sue tracce non fossero più comparse, avrebbe provato l’efficacia del veleno.

Non fu così. Le tracce del topo riapparvero dopo una settimana. Com’era possibile che non fosse venuto a contatto con il veleno? Marin scrutò nuovamente ogni angolo del terrazzo. Cercò di pensare come lui. Dove mi nasconderei, dove stabilirei la mia tana?

-Ti lascio, Marin- disse Kira, quella sera.
Non ha senso che sia ancora vivo.
-Non hai sentito cos’ ho detto? Incredibile, nemmeno questo ti smuove. Ho fatto le valigie.
-Sul serio? E dove andrai?- chiese lui.
-Non ti riguarda. Se vorrai saperlo, cercami.
Sto già seguendo le tracce di quel piccolo impostore. Forse ha fatto la tana al piano di sotto. Per arrivare al terrazzo dei Riva dovrebbe comunque passare per i condotti con il veleno.
-Kira, mi dispiace.
-Non è vero. Non t’importa di me, di niente. Quei soldi non sono mai arrivati, non voglio sapere come li hai spesi. Non sei l’unico che si diverte, ma io ho sempre condiviso il mio stipendio, pensando a nostro figlio. Tu invece non fai niente e ora è troppo tardi!
Così sembra, ma non è vero. Sto facendo tutto il possibile.

Sono le ultime rimaste, pensò Marin, infilando le banconote nella macchinetta. Una dopo l’altra. Fino a stringere l’aria nei pugni.
Arriva il momento in cui bisogna rigirarsi le tasche e far uscire ogni briciola, mettere sul tavolo tutto ciò che abbiamo: l’infanzia, la paura, la maschera, il rimorso. Rotolano, scorrono. Allargare le braccia. Chiudere gli occhi e aspettare. Ti troverò, prima o poi. Aspettare, aspettare. Aspettare cosa? Lui non verrà. Attendere un colpo, un urlo, un pugno. Tre ciliegie in fila. Un poker di re. Lui non c’è, non c’è mai stato! Lui non esiste! Un segno. Mi sembra di sentirlo squittire anche adesso! Che la pallina ticchettante si fermi sul numero vincente. Prima o poi uscirà fuori. Aspettare fino a che fa buio. Da qualche parte deve pur essere. Fino a che non sarà del tutto nero. Fino a che non sarà più niente.

 

 

(Racconto di Valentina Moretti, 2015)