Manifesta 10: un viaggio metafisico

Le mostre d’arte sono dei varchi. Ci si entra dentro, e ci si ritrova in un altro mondo, in un altro luogo, in un altro tempo. Hanno qualcosa di magico, che permette di estraniarsi completamente e immergersi in una vasca di colori ad olio, di carta, di pellicola. Adoro le sale oscurate dove proiettano i film. Odio quasi sempre i film in sé, me ne vado dopo 30 secondi. Di solito sono pretenziosi, ripetitivi, troppo “intellettuali”, eppure stare in quelle sale buie- specie se con i cuscini per terra- a godersi le proiezioni ha un che di rassicurante.

La mostra del gruppo Manifesta 10 (la Biennale europea di Arte Contemporanea) nella Piazza del Palazzo 6/8 (di fronte all’Hermitage, nel “General staff building”) a San Pietroburgo è qualcosa che soddisfa pienamente l’idea di estraniazione dalla realtà. Appena si varca l’ingresso, tutto diviene arte, tutto cambia connotati e si trasforma in qualcosa da guardare. La mostra è interessante fuori e dentro. Ha un nuovo fuori che è un dentro: la sua meravigliosa struttura architettonica, fatta di soffitti altissimi, scalinate di plastica, atri di marmo, supporti di legno. E’ chiara, luminosa, trasparente e leggera. Ha l’aspetto di una città al chiuso, rimanda al futuro e al passato. Ricorda vagamente “La città ideale”, il dipinto anonimo del Quattocento. Percorrendo la piazzetta all’ingresso, in particolare, sembra di essere imprigionati in certi quadri di De Chirico. Ha un che di metafisico, nel senso che guarda la fisica e le fa l’occhiolino; la sua è una fisica che si guarda allo specchio, e mentre lo fa, ha già rimandato ad altro. Dunque vale decisamente la pena di visitarla, fosse anche solo per ammirarne la struttura architettonica. Si parte dal quarto piano e si discende nei suoi anfratti, nei tunnel. Si guarda sopra, sotto, di fianco, dietro.

Il quarto piano è dedicato a Matisse. Nelle sale successive si ammirano i lavori di un artista (Wolfgang Tillmans) che sceglie di appendere al muro le sue fotografie come fossero quelle nella cameretta di un quindicenne, senza cornice né vetro. I soggetti in sé non sempre sono godibili e comprensibili all’occhio profano (un orecchio di un tale, abiti abbandonati per terra). Naturalmente si sa che prima o poi ci si imbatte nelle classiche tele irritanti- quattro enormi tele dipinte a tinta unita, e tanti saluti (l’autore è Oliver Mosset). Ai piani di sotto, enormi tele scarabocchiate in rosso di Otto Zitko, e delle graziose bandiere appese ai muri dell’artista Timur Novikov, che recano micro soggetti (pinguini, aerei, una chiesa ortodossa). Quindi, i soliti video concettuali- radicali (l’autrice è Elena Kovylina), che mostrano una sfilza di persone a Mosca e a San Pietroburgo che stanno in piedi su sgabelli, uno in fila all’altro, con una marcia solenne in sottofondo e le espressioni truci (pare simboleggino la satira della non equità nella società solo apparentemente democratica, e l’assenza di dialogo. Sì, di quest’ultima ce n’eravamo accorti anche noi). D’un tratto, appare qualcosa di casuale. Quello che fa la differenza, per me, in queste mostre, è ciò che non intenzionalmente, e inaspettatamente, a volte ho la fortuna di cogliere. Ho imparato a guardare innanzitutto ciò che sta attorno alle opere, prima delle opere stesse. M’è apparso il paradosso geniale di un Cristo vecchio. Un uomo anziano in abito scuro, a vegliare sulla stanza oscurata dei video, di una regalità e bellezza inusitata. Differiva nella maniera più totale dalle classiche “custodi dei musei”, di cui ho parlato diffusamente. Quelle signore si confondono con la mostra e le sue opere, sono tappezzeria; quell’uomo sconosciuto spiccava, contrastava insolentemente, e non era neppure arte. Era piuttosto un modello vivo per l’arte. Sarebbe stato perfetto per esser copiato in un quadro di Repin, di Rembrandt. Sul suo ricco profilo si poteva immaginare qualunque storia, lo si poteva rendere un nobiluomo russo del Settecento, un personaggio biblico, Priamo re di Troia, persino uno zar. Soprattutto, avrebbe potuto essere il Cristo sui settant’anni. Il paradosso di un Cristo che non fosse morto giovane, e diventato un mito, come tutti i grandi uomini privati della vecchiaia, ci avrebbe forse regalato un’altra immagine iconica e dolce cui aggrapparci: quella di un Cristo rugoso, bianco e saggio. Un Cristo longevo, che si regge sul bastone, a cui cedi il posto sull’autobus, non per pena ma per rispetto estremo. Un Cristo che fa un po’ nonno e un po’ Babbo Natale, che commuove non perché sulla croce, ma perché nelle sue rughe puoi leggere ogni passo della sua vita, nei suoi occhi infossati e trasparenti la sofferenza, sua e altrui, accumulata in troppi anni. Un Cristo non martire, ma uomo, con magari dei nipotini, attaccato alla sua vita e ai suoi libri come chiunque altro, e che l’abbandona sulla soglia dei novanta, con i famigliari raccolti attorno al suo letto.

Non possono non colpire le sale con le fotografie dell’artista ucraino Boris Mikhailov sul Maidan di Kiev. I tumulti del Maidan sono già storia, già arte, prima ancora d’essere passati. Sono qualcosa su cui non si può tacere. Fa senz’altro effetto vedere già esibito sui muri ciò che è accaduto così poco tempo fa, e di cui si parlerà per sempre come di qualcosa di terribile, le cui conseguenze ancora si ignorano, forse intenzionalmente. Le immagini sono toccanti, pur senza essere troppo truculente. L’artista risparmia corpi maciullati e mette l’accento sul messaggio inquietante che i manifestanti trasmettono, cose come “Libertà è morte!” oppure taglie messe sulle teste di alcuni militanti del Berkut. Altra cosa che colpisce è un cartello su cui si legge la famosa frase del poeta Turgenev: “La Russia non si può capire… non si misura con il metro comune… ha un peculiare carattere…” e sotto una frase in ucraino, firmata dall'”Ucraina media”: “e la nostra opinione su questo non si capisce?”. L’artista punta dunque a mostrare i messaggi demagogici che hanno portato alla ribellione dei piani bassi, sobillando persone di ogni genere con slogan nazionalisti e anti-russi. Capire cosa abbia trascinato non solo mercenari e fuorilegge, ma anche persone comuni ad una simile rivolta armata, è fondamentale per pensare a come poterla sedare prima che si trasformi in un vero e proprio auto-genocidio.

Un’altra grande opera che colpisce è quella dell’artista Thomas Hirschhorn: un’enorme caos di macerie, una demolizione fatta ad arte, realizzata con materiali poveri (polistirolo, scotch, gomma), che fuoriesce dalla ricostruzione di un tipico appartamento russo di vecchio stile, con la stufa a gas e l’arredamento spartano. Quell’esplosione, a mio avviso, rimanda alle case di Gaza distrutte dai bombardamenti. Quella distruzione è un monito, e un memento.

Manifesta 10 al nuovo Hermitage, nel suo territorio metafisico, invita dunque a riflettere su più piani, non solo quelli fisici del bellissimo edificio, ma quelli che sovrappongono diversi momenti storici, dal classico al contemporaneo all’appena accaduto, permettendo di compiere un breve viaggio trasversale e sensoriale all’interno- esterno di pezzi di arte, di storia, di vita. Consiglio vivamente di visitarla. Comprende molte altre installazioni ed eventi in giro per tutta la città. Dal 28 giugno al 3 ottobre 2014. Info e programma completo (in inglese) su: http://manifesta10.org/en/home/

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