L’oblomovismo e il regno della profondissima quiete

Un pingue e molle uomo sulla trentina, in vestaglia cinese, che non fa che dormire e star disteso sul letto o sul divano, rinchiuso in una casa piena di orpelli e di ragnatele, con un servitore fedele ma altrettanto pigro e brontolone. Un uomo per cui anche solo scrivere una lettera o lavarsi rappresenta una fatica immane ed inutile. Uno strano tizio che si sente sempre fiacco, malaticcio, e accampa mille scuse per non uscire mai di casa. Ecco a voi Ilya Ilich Oblòmov, un personaggio davvero unico nella letteratura non soltanto russa, ma mondiale.

Goncharov è un abile descrittore di situazioni e sensazioni, ma sopra ogni cosa di tipi umani. Così non soltanto Oblomov, ma anche il buffo servo Zachar, la dolce e intelligente Olga, lo scroccone irascibile Tarantiev, l’insulso Andreevich e l’intraprendente amico Stolz sono tratteggiati in maniera accurata, sicché ci sembra di vederli e di conoscerli, e sorridiamo nell’apprendere i loro buffi comportamenti, le loro caratteristiche e manie.

 La suggestione che il romanzo di Goncharov è in grado di creare è notevole. La maestria dello scrittore sta nell’aver creato un personaggio talmente definito, insolito ed emblematico da aver meritato- già all’interno del libro stesso- neologismi al riguardo: il termine “Oblomovka” indica non soltanto la tenuta e il villaggio degli Oblomov, ma anche il regno incantato di quiete e serenità che Oblomov sogna; sopra tutto, gli aggettivi “oblomovismo”, “oblomoviano” indicano il modus vivendi di Ilya Oblomov.

E dunque, benvenuti a Oblomovka, la terra di Oblomov, tra il sogno e la realtà!

Che cos’è l’oblomovismo? E’ l’accidia e l’immobilità assoluta, radicale. E’la Weltanshaung di Oblomov, cui segue il suo comportamento totalmente passivo e accidioso, inattivo e quieto, per cui la vita esterna suscita timore e disgusto, perciò la rifugge, preferendo chiudersi nella propria stanza. L’unico modo dignitoso e possibile di vivere non consiste, secondo Oblomov, nel lottare, muoversi, chiacchierare, studiare, viaggiare e conoscere, ma unicamente nello star fermi e dedicarsi a cose semplici, facendo vagare il pensiero in un limbo ingenuo di quiete. Egli denigra l’affaccendarsi, il lavoro, la fretta, il chiacchiericcio, la mondanità, gli amori fugaci, le passioni, le relazioni sociali, i viaggi: a che cosa servono, si chiede? Non sono che vacue sciocchezze. Critica aspramente i salotti mondani, l’ambiente pietroburghese ove tutti parlano ma nessuno dice nulla, regna ipocrisia, apparenza, ostentazione, conformismo. Dov’è l’uomo, dov’è la vita, in tutto questo muoversi come ossessi senza scopo?

Si capisce come la scelta di Goncharov del cognome Oblomov non sia affatto casuale. Il termine deriva da облом, “fiasco”, da cui il verbo обломать, “rompere in cerchio, intorno”, e обломок, “resto, coccio” di qualcosa di preesistente. Oblomov rompe le convenzioni canoniche, rompe la vita, di cui rimangono i resti, i cocci, nella sua casa disordinata come nella sua mente. Inoltre, nel lessico poetico russo c’è il termine “сон-обломон” (son-oblomon, “un sonno che incanta l’uomo e lo porta alla lapide, in una morte graduale e lenta). Non è escluso che termine possa essere collegato all’antico aggettivo облый, che significa ‘круглый’, cioè “rotondo, tondo”. Oblomov è infatti tondo, pingue, non solo fisicamente ma in senso anche figurato: morbido, quieto, malleabile, indifferente. E’curioso come il campo semantico e il suono del vocabolo si riallacci, nel nostro immaginario, al termine latino “oblivion” e alla bellissima parola italiana da esso derivante, “oblio”. Oblomov, in un certo senso, vive e sogna un eterno oblio che renda le emozioni tenui, che faccia fluttuare tra il sogno e la veglia.

Il perno della visione esistenziale di Oblomov non sta tanto nell’idea della morte come nullificazione di ogni progetto (alla Camus), ma nella vita “consumata a lavorare” come impropria e inadatta all’uomo, cui segue la negazione di Oblomov, il suo rifiuto, il suo perfetto e sfrontato inno all’accidia in ogni sua forma- accidia, prima di tutto, intellettuale oltre che fisica.

Conoscere significa soffrire, così come pensare- in questo crede Oblomov. I libri non sono d’aiuto, anzi, complicano le cose, così come è del tutto sciocco e incomprensibile l’affaccendarsi degli uomini russi dietro ai fatti di cronaca e di politica. Nemmeno la natura può essere di consolazione a questo terrore di gettarsi nella vita e bere alla coppa d’un fiato: il mare è visto come terribile, vasto e violento, con il moto ondoso irrequieto ma sempre identico, così come le montagne, maestose, sempre pronte a ricordare all’uomo la sua miseria ed impotenza. E’allora la piccola e silente natura della campagna, l’ovattato raccoglimento della casa, l’unico rifugio alle tempeste dell’esistenza.

L’oblomovismo è stato spesso visto come un “no alla vita”, contrapposto al “sì” nietzschiano, ma io credo sia qualcosa di leggermente diverso. La vita, qui, non viene disprezzata tout court e rigettata (in maniera radicalmente pessimistica e nichilistica), né ad essa si contrappone un ideale messianico a venire (come nella mentalità cristiana e religiosa in generale, per cui l’al di là dà senso alla vita mondana, che inevitabilmente ne perde). E’ un no rivolto unicamente alla vita attiva, alla vita consumata, la vita di speranze, progetti ed obiettivi della maggior parte delle persone, incarnata dal buon amico Stolz: un uomo ambizioso, dotato di senso pratico e senso degli affari, attivo, mondano, curioso, solido e ottimista. E’il sì all’ideale della felicità senza pretese né eccessivo pensiero, al sogno, alla semplicità, la superstizione, i gesti quotidiani, le fiabe della niania, i dolci ricordi d’infanzia, le attività distensive della campagna, la calma e l’oblio, magistralmente descritti nel capitolo del sogno di Oblomov, nella sua lontana e perduta Oblomovka (in questo c’è una nota romantica e nostalgica alla Pascoli, alla Leopardi). Oblomov contrappone dunque un ideale di felicità come “profondissima quiete” alla vita terrena canonica, che rifiuta, ma questa idea non possiede connotazioni religiose, bensì è un modus operandi concreto: quello del non operare affatto.

L’immobilità di Oblomov come reazione allo sgomento del brulicare degli esseri viventi, dell’infinità di temi, situazioni, passioni, rispecchia, in un certo senso, l’angoscia del filosofo Kierkegaard verso le molte possibilità della vita e l’obbligo di una scelta, di un aut-aut (vita estetica, etica o religiosa? questo è il problema). Kierkegaard rifuggì persino un grande amore per paura di guastarlo, consumarlo, vilipenderlo vivendolo: tra l’amata Regine e la filosofia, scelse quest’ultima. Lo stesso dubbio pervade Oblomov: “essere o non essere?”, si chiede, amleticamente, e decide senza esitazione di non essere. Fino a quando incontra Olga, e decide di essere. Ma questa è un’altra storia, di cui parleremo prossimamente.

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