L’anima invisibile di Astana

Non sai cosa aspettarti prima di arrivare qui, ma forse una parte di te pensa che il Kazakhstan sia un mondo chiuso e orientale, una sconfinata steppa incisa di reminiscenze della via della Seta. Nella tua mente quel vasto territorio si forgia come un’enorme nicchia pressoché inesplorata e selvaggia, la landa da cui partono i razzi per disperdersi nel cosmo, forse perché il brullo niente intorno alla steppa corrisponde a quello vuoto e muto dello spazio, perché il trauma sia più dolce.

Ti aspetti molte cose, alcune lette, sentite dire, altre immaginate, e invece quando apri gli occhi su Astana trovi un mondo inaspettato. Scorgi dai vetri dei taxi palazzi governativi, piramidi, pagode, moschee, grattacieli, edifici simili ad ufo, anelli ed arene, casermoni sovietici, jurte e case russe con il tetto spiovente, costruzioni moderne. Capisci che Astana è un’accozzaglia casuale di edifici alla rinfusa con qualcosa di pacchiano, sporadici, distanti uno dall’altro come biglie lanciate sulla sabbia, gettati lì senza un senso, invece devono averne uno: Astana è la nuova capitale voluta dal presidente e ogni cosa qui deve avere un motivo. Astana è una città giovanissima, vergine prima dell’avvento dei cosacchi nell’Ottocento,è  la quieta regina della steppa del nord del Kazakhstan, incastrata tra Siberia, Mongolia e Cina. Astana è il centro di uno stato ibrido e silente, che del suo antico nomadismo ha fatto una bandiera. Uno stato russo-turco-mongolo, senza la repressione e la chiusura del Turkmenistan, senza la desolazione e l’isolamento del Kirgizistan, senza lo squallore e la maestosità della Siberia, con qualcosa di fasullo e iconico come Las Vegas, ma senza azzardo, turismo né eccesso. Astana è una reductio ad absurdum, la sottrazione di tutto quello cui la si potrebbe associare ma che si finisce per escludere, come i volti dei suoi abitanti, che sono orientali ma, e quel “ma” ha qualcosa che non sai, e non saprai mai.

E allora, esplorando il mercato centrale, cerchi i rimasugli del fasto esotico del bazar e trovi container cinesi in cui donne dagli abiti lunghi vendono scarpe di pelle. Ti aggiri intimorito per una sfilza di negozi al chiuso, disposti in serie come i barattoli sugli scaffali, in cui c’è ogni genere di cianfrusaglia elettronica, dove ti guardano come un alieno cui spillare qualche tenghè. Trovi una vetrina gremita di giganteschi orsi di peluche, dentro la quale bambini dagli occhi come tratti di pennino giocano per terra, con la coppola di cotone in testa; cerchi la steppa, ma non ne trovi che qualche brullo pezzetto nascosto tra le costruzioni e gli immensi viali; vuoi comprare qualcosa di caratteristico ma ti ritrovi sempre in grossi centri commerciali dall’architettura bizzarra, dove c’è persino, se sei fortunato, la Coca Cola Zero, ma ne esci totalmente insoddisfatto, perché non è neanche questo quello che vuoi. Finisci per bramare qualcosa di reale e t’imbatti nella naberezhnaya, la riva del fiume lungo quella che chiamano città vecchia (che di vecchio ha poco, ma almeno ha strade e piccoli negozi, come il concetto di città cui sei abituato), dove il sole di un agosto freddo e incostante ti investe, cogliendoti impreparato, le famiglie avanzano per la passeggiata, qualcuno si addormenta sul cemento o si bagna i piedi, e sulla destra vedi una manciata di grattacieli, sulla sinistra un ponte pacchiano a semiarco che la sera s’illumina come l’insegna di un vacuo luna park. Mentre mangi carne di ogni tipo, (persino testicoli di montone, se proprio insisti) e ti sporgi dalla veranda del ristorante gremito di libellule, t’imbatti nel fiume che capovolge i bassi grattacieli. Lì noti che Astana, quando viene la sera, cambia completamente faccia. Tutto si disegna di luce e si tinge di buio, la pietra dei palazzi svanisce e diventa un trasparente vuoto nero, lasciandone solo i profili di colore in mutamento. Ti lasci rapire da quelle luci artificiali e ripetitive, e pensi che non sai esattamente dove sei. Non trovi niente che te lo spieghi, non trovi ricordi né appigli. Allora forse è questa identità sepolta, errabonda, contaminata, che i kazaki vogliono celebrare con i loro fastosi matrimoni, le loro cerimonie solenni. Celebrandola, in realtà la affermano. Ad Astana nessuno si lamenta del presidente o parla più di tanto di politica; ad Astana quasi nessuno vive, ma tutti sono di passaggio. E allora, limando e scavando, togliendo e rasando le aspettative e gli stereotipi, di Astana rimane un monumento in pieno centro, chiamato Baiterek, un getto di pietra che culmina in una sfera dorata, simbolo di fasto e decadenza; un enorme ristorante semivuoto dove un uomo panciuto e un’esile ragazza su tacchi sottili cantano canzoni melodiche in russo. E neppure quella, forse, è l’anima di Astana, ma soltanto una manciata di polvere e vento in un involucro di plastica dorata.

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4 Risposte a “L’anima invisibile di Astana”

  1. Un racconto davvero profondo, che coglie nel segno e mi svela, almeno in parte, le curiosità che questa città mi suscita! Sperodi riuscire ad esserci nel 2017 per raccontarla…

    1. Grazie! Mi fa molto piacere che venga apprezzata la mia visione di questa città e che abbia trasmesso un’emozione. Se posso chiedere, cosa farai ad Astana? Lavorerai per EXPO? Se hai bisogno di qualche dritta, non esitare a contattarmi! Grazie, Valentina.

      1. Ciao Valentina, verrei per semplice curiosità e per “alimentare” un po’ il mio blog con spunti di viaggio inconsueti. Grazie per il tuo contributo!

        1. Grazie a te, e complimenti per il tuo blog, ho dato un’occhiata, è molto interessante! Se hai bisogno di qualche contributo in più su questo genere di territori, non esitare a contattarmi!

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