L’altro lato di San Pietroburgo

Di San Pietroburgo sono noti i giardini, i canali, i palazzi lussuosi, gli edifici dai colori tenui, schierati come matite nelle scatole di metallo, o saponi. Rimane impressa l’interminabile prospettiva Nevskij, i rostri bordeaux vicino alla Neva, la regale solennità di questa regina meticcia, dai genitori russi e dagli amanti europei. Se fosse una donna, Piter (che invece ha un nome maschile, quello del suo fondatore, Pietro I) non sarebbe solo impenetrabile come una zarina, ma anche un’eroina da romanzo, di quelle tormentate, che in società devono mostrare una faccia, sempre sorridente e imbellettata, ma che dentro urlano. Di quelle che piangono di lacrime sottili come rugiada, come la sua pioggia d’autunno delicata e incessante, che sfiora appena il viso, ma stringe forte il petto. San Pietroburgo è una giovane nobildonna che cerca di nascondere la cena a base di patate e il “male di vivere”. Nata da famiglia reale, costruita a tavolino, costretta alla mondanità, ha visto pernottare i più grandi scrittori e architetti e più disperati barboni. S’è giocata a carte la sua corona, si è bevuta i suoi arazzi e i suoi vasi in malachite in qualche notte troppo lunga e balorda. La descrive proprio così Dostoevskij: “Era una mattina umida e nebbiosa. Pietroburgo si svegliò malvagia e infuriata, come un’irritata vergine mondana, gialla di rabbia per il ballo della sera precedente. Era arrabbiata dai piedi alla testa. Aveva riposato male, la sua bile si era versata in enorme quantità, forse si era ammalata e aveva preso un raffreddore, la sera aveva forse perso alle carte, come un bambino. Solo lei si era indispettita così tanto, che era penoso guardare i suoi umidi, grandi muri, i suoi marmi, bassorilievi, statue, colonne, che sembravano essersi ugualmente innervositi per il cattivo tempo, tremare e battere i denti dall’umidità, sul nudo granito delle strade, come se si incrinasse con odio sotto le gambe dei passanti….“. E’ un Giano bifronte, una città spaccata in due, come il suo nome. Ha il suo dark side, che è forse più un lato umido e bianco, di neve sciolta, foschia, ghiaccio bagnato. San Pietroburgo è una palude ricoperta di marmo e d’oro. Sotto, però, l’umido della palude non smette di cantare la sua disperazione. Dostoevskij riteneva che una città nata dalla sofferenza di più di mille persone non potrà mai essere felice. Per costruirla hanno lottato con la natura, l’hanno soffocata, ma si è presa la sua vendetta: innumerevoli prigionieri, costretti forzatamente ai lavori di edilizia, sono deceduti durante la sua edificazione, uccisi dal clima poco gentile e dalla fatica. Ciò che nasce con tanto dolore e sforzo, come in un parto travagliato, a volte si rivela magnifico. Ma l’angoscia e il lamento trapelano per le strade, riaffiorano come un cadavere gettato nel canale. Pietroburgo è un camaleonte meteoropatico che muta a seconda delle stagioni, e spesso se le inventa, capriccioso e insoddisfatto. Dostoevskij odiava l’estate di Pietroburgo. Afosa, soffocante, gialla e asmatica, faceva esalare gli odori della palude e della povertà. Faceva venire voglia di uccidere per non essere uccisi, come pensava Raskol’nikov. L’estate, con le sue magiche notti bianche, lo irritava. Mostrava la “vergine mondana” nuda, illuminata dai fari della polizia. Scovata, sorpresa, costretta a spogliarsi per essere perquisita con meticolosità. Senza via di fuga.

Per questo gli (anti) eroi di Dostoevskij dovevano amarne l’autunno- la stagione in assoluto peggiore, quella che ricopre la città di una nebbia bagnata, di un perenne grigiore di pozzanghera, di una neve turbinante, come quella nei souvenir delle cattedrali di vetro (questo tipo di neve, in russo è chiamata: v’juga). Perché l’autunno ne rivela il lato oscuro e soppresso, quello indicibile e malato. Raskol’nikov ama “come canticchiano sotto l’organetto, in una sera fredda, buia e umida, tremendamente umida, quando tutti i passanti hanno visi verde pallido, malati; o ancor meglio, quando la neve bagnata cade del tutto diritta, senza vento… e attraverso di lei brillano i lampioni a gas...”.

La città è un camaleonte anche perché non è mai finita. San Pietroburgo è un processo incessante: in perenne costruzione, come un cumulo di mattoni che si accatasta senza sosta. Si crea e si continua a creare, perché forse i canali la scavano, il clima la scalfisce e distrugge, e bisogna continuamente “aggiustarle il trucco”. Proprio come in Delitto e Castigo, ci si imbatte di frequente in edifici fasciati da impalcature, reti, lavori in corso. Terreni dissestati e scavi troneggiano rovinando, o arricchendo, fortezze e palazzi lussuosi. Operai e carpentieri, uomini a torso nudo o ubriaconi si riposano all’ombra delle colonne in stile dorico o del giardino d’estate, come in una “dèjeuner sur l’herbe” in stile non borghese.

L’altro lato di San Pietroburgo è nelle periferie. E’ dietro la Sennaya Ploshad, nelle vie dove Dostoevskij visse e dove nacque l’idea dell’omicidio della vecchia usuraia. E’ sulle isole al di là della Neva. E’ negli appartamenti fatiscenti allestiti a piccole mostre d’arte, dove un collezionista mostra dipinti di artisti sovietici, ostacolati dalla censura. Nel centro, lungo gli itinerari turistici, è difficile scorgere quel lato. Dove la cultura è divenuta culto e turismo, dove ogni pezzo di storia si è trasformato in rubli, cerco le tracce di ciò che c’era. Provo a seguire i passi di Pushkin, Nabokov, di Fedor Mikahilovich. Cerco le tracce di sangue degli zar uccisi. Quanta grandezza e miseria, grazia e tragedia ha ospitato questo luogo! Ciò che trovo, sono statue di scrittori e personaggi che vi hanno vissuto o anche solo starnutito, bassorilievi appesi ai muri, il ristorante “L’idiota“, il caffè “Pushkin”. Sulla testa di pietra di Aleksandr si posano gli uccelli, ci si fanno le foto come assieme ad un vecchio amico. Lungo la Moika, in cui venne gettato Rasputin, ballano e bevono i ragazzi sulle barche a motore, ripetono cantilene le guide turistiche. Accanto alla fortezza di Pietro e Paolo, dove sono sepolti i Romanoff e dove venivano reclusi e giustiziati i dissidenti, la gente prende il sole e affonda sigarette nella sabbia. E forse è giusto che quell’anima nera e straziante, quel dramma interiore e cupo, sia andato quasi interamente perduto. Il segreto della maschera di Pietroburgo, che si intravede nelle giornate umide, come se l’acqua ne lavasse il trucco dai muri, forse non deve essere rivelato. Giace sepolto in fondo alla Neva, assieme a cadaveri mai trovati e desideri di metallo mai avverati.

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