La Venezia di Brodskij: le Fondamenta degli incurabili

C’è un poeta russo (premio Nobel) molto legato all’Italia, in particolare ad una città, tanto da averle dedicato i migliori pensieri mai scritti. Sto parlando di Josif Brodskij e del suo saggio “Fondamenta degli incurabili” (1989), dedicato alla città di Venezia. Il titolo originale dell’opera in inglese, Watermark, acquista molto più fascino nella traduzione italiana o russa. Le Fondamenta degli incurabili sono quelle che oggi si chiamano Fondamenta delle Zattere, la riva di Dorsoduro dove anticamente era ubicato l’Ospedale degli Incurabili (cioè i malati di peste), oggi Museo delle Belle Arti (e dove c’è una targa dedicata al poeta russo). Il legame di Brodskij con le città acquatiche è un’origine e un destino: nato a Leningrado, oggi San Pietroburgo, la Venezia del Nord, scoprirà Venezia intorno ai 26 anni e continuerà a farvi ritorno, stregato dalla sua bellezza, fino alla sua morte. Dopo un anno di discussioni tra i parenti, verrà sepolto proprio a Venezia.

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Fondamenta degli incurabili è un vero e proprio inno in prosa alla bellezza della città, al suo rapporto con il tempo e con il sogno. Brodskij si propone di tratteggiare Venezia in alcuni momenti della giornata, di dipingerla con le parole. Il suo momento prediletto in cui godere della magia del luogo è l’inverno, dove la luce esalta, senza scaldare, le arcate ed i portici, e il sole “danza sopra le innumerevoli squame delle piccole onde che increspano la Laguna”. Quella invernale è una luce privata, una “carezza dell’infinito”. E d’inverno la città sembra un “servizio di porcellana posato su un’acqua di cristallo”… “con tutte le sue cupole coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno per fondersi nel cielo”. Alle basse temperature la bellezza è pura, è semplicemente bellezza, e quando il Re Nebbia cinge la città, la porta fuori dal tempo, la rende invisibile.

Venezia è il luogo in cui, attraverso i riflessi dell’acqua, emerge il proprio autoritratto, il proprio Io e l’inconscio, la dimensione onirica. “Il lento procedere del vaporetto attraverso la notte era come il passaggio di un pensiero attraverso il subconscio”. Tuttavia l’Io è smarrito di fronte alla bellezza di Venezia e diviene schiavo di un senso, la vista, e di un organo, l’occhio, che assume la stessa autonomia di una lacrima, ma senza staccarsi dal viso. L’occhio è sempre alla ricerca di sicurezza, poiché l’ambiente esterno si configura sostanzialmente come ostile, e la trova nella bellezza. Venezia è il trionfo dell’occhio, tanto che si è “costretti” a gettarsi in ogni negozio e comprare ogni sorta di chincaglierie per agghindarsi e, in un certo senso, adeguarsi a quella bellezza, tentare di rispondervi.  E quando ci si deve allontanare da lei, “non è il corpo a lasciare la città, è la città che abbandona la pupilla”e ciò può provocare una lacrima per via dell’“incapacità di trattenere la bellezza”.

img_0357Di notte a Venezia si creano ulteriori suggestioni visive: l’acqua “fa pensare alla carta da musica, ai fogli di una musica eseguita in continuazione: le partiture si avvicendano come ondate di marea, le barre del pentagramma sono i canali con gli innumerevoli “legati” dei ponti, delle lunghe finestre o dei fastigi delle chiese di Codussi, per non parlare dei violini che hanno prestato il manico alle gondole. Sì, tutta la città somiglia ad un’immensa orchestra, specialmente di notte, con i leggii appena illuminati dei palazzi, con un coro instancabile di onde, col falsetto di una stella nel cielo invernale”. E un giro in gondola notturno ha qualcosa di erotico, “nel trascorrere del suo agile corpo sull’acqua, senza rumore, senza traccia- qualcosa che somigliava molto allo scorrere della tua mano sulla pelle levigata di una donna”.

Interessante è la correlazione che fa Brodskij tra Dio, il tempo, l’acqua e la bellezza. Lo spirito di Dio, per Brodskij, è tempo, e se aleggia sopra l’acqua, essa non può non rifletterlo. L’acqua è un’immagine perfetta del tempo, e a Venezia c’è una particolare dialettica tra il “pizzo verticale delle facciate” degli edifici e “l’anarchia dell’acqua”: come se lo spazio, sentendosi inferiore al tempo, “gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: la bellezza. Ed ecco perché l’acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la porta pressoché intatta verso il largo, nell’Adriatico”. La bellezza sfida il futuro perché resta immutata, è l’eterno presente, scrive Brodskij. Così l’acqua di Venezia raddoppia la bellezza riflettendola, ed è proprio il contatto tra acqua/tempo e bellezza il significato di Venezia nel mondo: il tempo ne risulta abbellito, perché se noi procediamo verso il futuro, Venezia resta sempre dov’è, eternamente meravigliosa.

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E allora le Fondamenta degli incurabili sono quelle rive imponenti dove l’acqua screziata si frange contro i palazzi, dove nemmeno la malattia e la peste può scalfire la bellezza della città; dove, piuttosto, è incurabile l’animo umano, all’incessante ricerca del bello e dell’eterno. Venezia è bella anche e soprattutto perché è triste, perché reca la cifra dell’irraggiungibile, perché sembra eternamente cadere in pezzi senza farlo mai; perché la sua acqua riflette e sdoppia i suoi elementi in un gioco che abbiamo in parte creato ma cui  non possiamo prender parte che come spettatori, gettati fuori dalla bellezza, fuori dal presente. Sicché l’unica cura all’indigenza di un amore eternamente non corrisposto, quello per l’oggetto, potrebbe essere la copia, la narrazione. Il racconto, il dipinto, la scrittura.

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