La sonata a Kreutzer di Tolstoj: tra nichilismo e puritanesimo

Ciò che mi colpisce nell’opera di Tolstoj “La sonata a Kreutzer”(Крейцерова соната) è il contrasto sfacciato che si respira leggendola: tra il pessimismo talmente pronunciato da sfociare nel nichilismo e l’ideale puritano, cristiano che di fondo emerge come perduto. Sciocco non pensare che nelle parole del controverso protagonista e uxoricida, Pozdnyshev, non sia racchiuso il pensiero dell’autore riguardo al decadimento del valore del matrimonio, alle conseguenze funeste dell’amore carnale, alla condizione della donna che non riesce a non essere vista dall’uomo come “oggetto di piacere”.
La forma, nella sua linearità e freddezza, sorprende perché sembra quasi che l’opera sia stata scritta di getto (seppure ve ne fossero versioni precedenti e meno incisive). Ciò cui siamo sottoposti, trovandoci nel treno assieme a Pozdnyshev, è un racconto- orazione del suo omicidio della moglie, in cui emergono idee ben precise sull’umanità, sul matrimonio, sulla procreazione e sull’amore carnale. Pozdsnyshev ha tutto il fascino degli anti-eroi russi tipici del tempo: odioso, nefando, criminale che uccide la moglie per gelosia e viene per giunta assolto dal sistema legislativo russo dei tempi! Pozdnyshev viaggia impunito sul treno e sorseggia un the forse troppo forte, raccontando nei minimi dettagli ad un viaggiatore la maniera in cui la gelosia, che lui definisce una “belva”, abbia preso il sopravvento su di lui sino a condurlo a conficcare un pugnale al di sotto del costato della moglie, sorpresa in compagnia del maestro di violino.
Le sue idee sulla vita sono assai dissacranti, un contrasto spiccato tra l’odiare se stesso e la sua promiscuità sessuale, cui il matrimonio non mise fine, ma incanalò in una gelosia animalesca, in un odio sempre crescente verso la moglie e i figli, visti come ostacolo alla loro vita coniugale- e identificati come problema generale della decadenza e corruzione dei matrimoni nella società borghese russa. Tutto ciò accade, secondo Pozdnyshev, soltanto per colpa del fatto che l’amore carnale rovina la moralità dell’uomo. La soluzione che propone è la castità, che anche se dovesse portare all’estinzione della razza umana (cosa che secondo lui è certa sia per quanto riguarda i credenti che gli evoluzionisti) non sarebbe nulla di male, dal momento che la vita non ha senso, e che se ne avesse ed esso fosse il bene (ostacolato dall’amore carnale), cesserebbe comunque nel momento in cui avesse raggiunto il suo obbiettivo.
Una parte molto interessante dell’opera è quella in cui Pozdnyshev ci illustra la sua visione personalissima e singolare sulla musica, in particolare sul “presto” della Sonata a Kreutzer di Beethoven eseguita al violino dalla moglie e dall’amante. Pozdnyshev afferma che quella sonata è “una cosa terribile, spaventosa”: “si può forse suonare in un salotto, in mezzo a dame in abiti scollati, questo presto? Suonarlo, e poi applaudire, e poi mangiare un gelato e parlare dell’ultimo pettegolezzo?”. No, di certo! A suo avviso, una musica tanto densa della personalità e dei pensieri dell’artista è da suonare in momenti  ben precisi ed importanti, altrimenti  rimane una provocazione di energia vuota, inconcludente; quel tipo di musica “esaspera, non conchiude”, e insinua nell’ascoltatore pensieri altrui; precisamente, in Pozdnyshev introdusse, come se gli “sussurrassero nell’anima”, un’inattesa e odiosa gioia, trasportandolo nello stato d’animo di chi l’aveva composta e rendendolo lieto in un momento in cui al contrario egli avrebbe dovuto odiare con ogni forza ogni persona che gli stava intorno, ed in particolare proprio il violinista e la moglie.
Questa visione della musica come qualcosa che fa tutt’altro che elevare l’animo di chi la ascolta, ma che al contrario lo devia, lo trasporta e lo spiazza in un territorio cui egli è alieno, è uno degli aspetti più interessanti a mio avviso del libro, nonché dei più suggestivi e riusciti, perché permette di figurarsi Pozdnyshev, arso dalla gelosia, il cui sangue ribolle nelle vene ma viene mescolato e addolcito da note tentatrici, la cui bellezza è talmente innegabile e profonda da avere il sopravvento su ogni altro suo sentimento.
Magistrale e tremendamente inquietante anche la descrizione, in un crescendo di drammaticità e orrore, dell’omicidio della moglie, ben preparato (lui si toglie le scarpe, sceglie il pugnale ricurvo di Damasco, presagisce di sorprendere la moglie e l’amante, cui si avvicina di soppiatto), durante il quale egli non perde neppure per un istante la lucidità, al contrario, afferma che sono sciocchezze quelle che vedono nell’omicida una rimozione mentale del suo gesto. Egli ne ricorda ogni minimo dettaglio. Infine, lasciamo Pozdnyshev sconvolto dopo il ricordo dell’assassinio, trasportato da esso ed immerso nel ricordo così vivido da sembrare presente, ripetere le parole: “mi perdoni”, rivolte alla moglie.
Tolstoj, in una postfazione, spiega e giustifica le idee espresse ne la Sonata a Kreutzer, sostenendo che la castità non sia che un ideale da seguire ma non un precetto, esattamente come lo è l’ideale della moralità cristiana, al quale gli esseri umani devono attenersi, aspirare il più possibile; che la castità non sia in contrasto con la continuità del genere umano, anzi, la favorisca, sfuggendo al libertinaggio, che è da evitare nella maniera più assoluta. Secondo lui è limitando lo sfogo del piacere e la riduzione delle donne ad oggetto e del matrimonio a strumento di piacere e gelosia, che l’umanità invece di estinguersi continuerebbe a procreare sotto l’egida del Bene.
E’qui che il nostro Lev’ non mi convince fino in fondo, è qui che mi delude. Lev’, tu che fai parlare il tuo Pozdnyshev come capro espiatorio, come vittima e carnefice della dissoluzione morale degli uomini del tuo tempo, tu che in lui vedi un uomo schiacciato dalle passioni e dal peccato, dal desiderio carnale e dalla gelosia, ma che al contempo si confessa e ne coglie tutto l’orrore e l’errore…proprio tu, poi ti giustifichi e dici che la castità non è un imperativo, ma un blando ideale? Che le tue idee non sono radicali come le sue? Certo, nessuno scrittore potrebbe mai dichiarare di essere in tutto e per tutto affine al proprio Raskol’nikov! Eppure, di quella squisita contrapposizione a tinte forti, di quell’ossimoro tra nichilismo e puritanesimo, tra colpa e pena, tra fascino ed orrore, tra castità e promiscuità, tra amore e ossessione incarnato da Pozdnishev, con il tuo poscritto ne hai fatto un grigio e piatto, bigotto e banale affievolimento a guisa di auto-giustificazione. Andiamo, come per i grandi (quale tu sei) non c’è bisogno di giustificarsi d’essere buoni, così non v’è neppure bisogno di giustificarsi d’essere terribili!

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