La donna della metropolitana di Mosca

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La metropolitana di Mosca non è bella perché è sfarzosa, perché è profonda e grande, perché rivela statue, mosaici e lampadari, perché è sovietica ed è veloce. La metropolitana di Mosca è sensazionale: è l’unica che permette il prodigio dello sguardo distratto a scorrimento veloce. Le sue lunghissime scale mobili ascendenti sono poste parallelamente e di fianco a quelle discendenti, in modo da consentire una visione rapidissima ma totale di tutti coloro che ti scorrono davanti, salendo o scendendo. È come sfogliare con il pollice un album di fotografie semi-immobili e quasi tridimensionali.

Immagina i colori più belli ed accesi, mischiali tra loro ed otterrai prima o poi un colore solo, che è davvero arduo definire.  Stai ascendendo e guardando distrattamente quel miscuglio di umanità in lenta e contraria discesa; ti stai soffermando, come ogni volta, senza espressione, su volti che, uno dopo l’altro, ti paiono anch’essi senza pretese, né drammi, né sogni. Ti senti a tua volta alla loro mercé- perché questa disposizione di scale mobili è tutt’altro che casuale, suggerisce equità- scorto a turno da ogni paio d’occhi- è l’unico passatempo ed il più comune che ci è concesso, guardarci a vicenda per un non più di un secondo, in quella interminabile salita-discesa. È l’unico spettacolo leggermente più interessante dei cartelloni pubblicitari rettangolari, della stessa dimensione e posti l’un l’altro alla stessa distanza, che scorrono davanti alla tua destra. Normalmente lo sguardo si perde dopo un istante e afferra il volto successivo. Indietro non si torna, mai. È una regola, quasi un veto. Invece. Inaspettatamente, la vedi. Lei, che d’improvviso, come una macchia di vino su un abito bianco, emerge tra il color fango della folla dei trasportati. Discende alla tua sinistra, e ti si palesa in quella discesa coatta come un celestiale, immobile eppur mobile blocco scolpito di carne e di luce. Bella come non ne hai vedute mai, ma non per il colore dell’abito, né per le gambe, che non riesci ad indovinare- è incastrata tra la sequenza che scorre, sicché puoi a malapena scorgere il suo mezzo busto. È bella senza una ragione, una sola, debole ragione per cui tu possa definirla tale. È bella perché è lei. La tua Euridice che discende meccanicamente da un sistema di trasporto elettrico. Discende inesorabile e scompare, come lo fanno tutte le altre teste intorno a lei, ma tu capisci che è sfacciatamente bella perché in quella frazione di secondo l’idea della sua scomparsa ti turba, quasi come se desiderassi che le scale che scendono e che salgono si guastassero contemporaneamente, e ti permettessero di guardarla almeno per un’altra manciata di secondi. Almeno! Ed è in quel momento, che non resisti e violi un dogma incontestato. È lì, che come un eroe ribelle cerchi di sfidare l’impossibile, ben conscio che fallirai. È lì che, come Orfeo, compi un gesto oltremodo scandaloso ed ardito: ti volti indietro, disperato e sconfitto, ben consapevole che lei non sarà mai più tua, che di lei se sei fortunato potrai scorgere ancora la nuca per un altro istante, e poi più nulla; tuo dramma si acuirà fino a divenire allegorico, nel caso straordinario in cui, in contemporanea, anche lei si sia voltata per rivederti; e quell’ultimo, irripetibile sguardo si sigillerà nella tua mente come l’icona più straziante e sbalorditiva dell’amor perduto ancor prima di nascere, di comprendersi; il suo sguardo, speculare al tuo, presagirà il dramma dell’attimo sfuggito, del non ritorno; e lei non tornerà: verrà inghiottita dal gorgo di teste dal colore mischiato e vomitata sulla pedana dei treni. Non la rivedrai mai più. A quel punto, proprio come Orfeo, deluso e vinto dal tuo desiderio, ti lasci condurre in alto, inerte ed impotente, voltando di nuovo la testa verso l’uscita dagli Inferi sotterranei e leninisti del sistema di trasporto pubblico di Mosca.