La confessione è sopravvalutata

Avete mai riflettuto sul significato e sul valore della confessione nel nostro mondo?  Lancio una provocazione al riguardo: e se fosse sopravvalutata? Proviamo a ribaltare le fondamenta dei valori del buonsenso, affermando che sia lodevole ed auspicabile mentire, non confessare.

Prendiamo il classico esempio del romanzo Delitto e castigo (lo so, sono ossessionata da Dostoevskij e vi faccio due maroni tanti. Perdonatemi!), dove uno dei temi centrali è proprio la confessione di Raskol’nikov. Tra le mille interpretazioni possibili, si potrebbe dire che la confessione del delitto rappresenti la necessità umana di ripristinare Dio laddove la giustizia latiti, ove il suo intervento non sia visibile, ove “Dio sia morto” (o non raggiungibile). Così, confessare il delitto, per Raskol’nikov, non è solo la via per la redenzione, ma anche una sorta di volersi sostituire a Dio per ripristinare il desiderio di giustizia e per auto-infliggersi un castigo che altrimenti avrebbe potuto restare impunito. Dostoevskij rimette tutto al suo posto, creando l’epilogo perfetto della sua storia, quasi a volerci comunicare che il desiderio di giustizia non potrà mai spegnersi nell’essere umano- che creda o meno in Dio.

Avete presente il film Crimini e misfatti di Woody Allen? Allen, grande appassionato di Dostoevskij, nel film ricalca in parte l’idea di Delitto e castigo, ma proponendo una soluzione finale alternativa, anzi opposta a quella del romanzo: la seducente idea che il delitto resti senza confessione, dunque senza castigo.

Cosa accade quando il delitto non trova il suo castigo? A trionfare è l’ingiustizia, perché non emerge la verità. La giustizia coincide con la verità solo in un mondo in cui si ammetta l’esistenza di Dio, come garante della loro coincidenza: se si concepisce Dio come un’entità onnisciente, come la verità nascosta e globale (il noumeno, come direbbe Kant) che la soggettività umana non potrà mai cogliere ma che ha un connotato morale, allora è chiaro che senza Dio tutto è lasciato in balia del caso, della relatività a-morale. La verità, senza un Dio a giustificarla, è terribilmente ingiusta, o quantomeno al di fuori del concetto di giustizia: inumana. Sembra che vi sia un aut-aut: o Dio è la verità, oppure la verità è al di fuori di Dio, dunque non è che fattualità priva di connotazioni morali (il termine “verità”, in russo, è meglio distinto che in italiano: и́стина, ìstina, è la verità filosofica assoluta, la concordanza tra pensiero e realtà; правда, pràvda, invece, è il vero, la giustizia).

La centralità della confessione, che si voglia ammettere o meno l’esistenza di Dio, è comunque cruciale: nella mentalità cristiana, la confessione è l’unico appiglio possibile, nel momento in cui Dio concede il libero arbitrio, dunque anche la possibilità di compiere il male (sei libero persino di compiere un delitto, ma poi lo devi confessare). In un’ottica di ateismo, la confessione ha un ruolo addirittura più importante: non si confessano i propri misfatti davanti a Dio, ma al posto di Dio: è l’uomo ad essersi sostituito a Dio, la confessione è l’unica possibilità di ottenere giustizia ed è un atto che dipende totalmente dall’uomo. A livello legale, ugualmente, la confessione è incentivata ai fini di trovare il colpevole e di infliggere la pena, risparmiando spese investigative e quant’altro (oltre alla possibilità di riabilitazione dei rei confessi in carcere). Sembra, insomma, che la società inneggi alla confessione, in tutto e per tutto. Prendiamo il classico esempio del tradimento. Venire a conoscenza di un tradimento sacrifica la propria felicità ed il proprio equilibrio, eppure in pochi preferirebbero non saperlo. Il desiderio di verità vince sempre, come nel film Vanilla Sky: chi, vorrebbe continuare a vivere consapevolmente dentro una finzione?

A livello soggettivo, è sempre e solo una questione di convenienza, di pay off: dove cade l’ago della bilancia, nella nostra mente? E’peggio, cioè, essere additato e punito come traditore (criminale, peccatore, o quant’altro) oppure fare i conti con la propria coscienza? Confessare, spesso, ha un valore catartico: vuol dire scaricarsi di un peso, lasciarsi alle spalle i propri peccati. Si tratta di una soluzione grossolana e pavida. Non sarebbe invece più ammirevole la capacità di sopportare il fardello interiore del proprio misfatto? Convivere con il senso di colpa è un’arte stoica, destinata a pochi, che richiede una sovversione dell’intera morale del senso comune per poter essere sopportata dalla coscienza. L’inconfessato, il segreto, hanno a che fare con una rivoluzione etica. Occorrerebbe rivalutare il vantaggio della confessione, o quanto meno ridimensionarlo: una volta compiuto il “male”, nulla può davvero porvi rimedio, dunque perché confessarlo? Non serve forse un po’ di menzogna nella vita di ciascuno di noi, laddove spesso la verità è scomoda, crudele e arreca dolore (la famosa bugia a fin di bene)? E ancora: l’omissione è da considerarsi menzogna? Qui il concetto si avvicina al diritto alla privacy: cosa e quanto di quello che s’insinua nelle nostre coscienze, in fin dei conti, occorrerebbe esplicitare?

C’è una differenza sostanziale con il passato. La confessione è oggi prevalentemente un atto pubblico- che gusto c’è a confessarsi dinnanzi ad un prete, uno psicologo o un avvocato, se hanno il segreto professionale? Sempre più lontani da Dio e da dimensioni rituali e convenzionali di confessione, l’uomo contemporaneo è smarrito e lenisce la sua sete di confessione con il social network. Il pubblico e il privato hanno confini sempre più labili. La versione contemporanea della confessione è post. Il post non è un’espiazione ma è la pubblicizzazione del privato, l’ossessione per l’esteriorizzazione della propria interiorità- torbida o lodevole che sia. Lo status è uno status di coscienza: ecco lo squallido confessionale del Grande Fratello (o Grande Flagello, che dir si voglia!!!). L’uomo contemporaneo non si confessa più nelle chiese, né tanto nelle aule dei tribunali, ma lo fa su Facebook o su Twitter; da Vespa, alla notte degli Oscar; fa outing ad un convegno. Taccia questo o quell’altro tizio di pedofilia, di molestie. Confessa per sé e persino per gli altri.

Ciò che diverrà una preziosa rarità, un domani, sarà forse la capacità di tenersi qualcosa per sé. Avere la forza di serbare non solo il proprio giudizio sul mondo, ma anche la propria gloria o la propria pochezza. Tradire senza lasciare tracce, senza scriverlo su Facebook o su Whatsapp ad un amico; agire in silenzio, nel bene e nel male.