Il traduttore in ambito medico: una professione delicata

Qualche giorno fa ho visto su Amazon Prime un film cubano molto particolare e toccante, “Un traduttore” (2018, regia di Rodrigo Barriuso). Il soggetto del film è l’esperienza, non cercata, di un professore di letteratura russa all’università all’Havana come traduttore nel reparto oncologico-pediatrico di un ospedale cubano, appositamente creato per supportare i bambini colpiti dal disastro di Chernobyll. Siamo nell’89, un anno importante, poco prima del crollo dell’Unione Sovietica, nell’anno della caduta del muro di Berlino e della crisi economica a Cuba. Immaginate di essere un docente di letteratura russa e di passare dal tradurre romanzi di Chekhov, Dostoevskij e Gogol’ al dovervi rapportare ogni giorno (e notte) con bambini senza capelli, sottoposti a radio e chemioterapia giornalmente, catapultati in un Paese straniero, che contano soltanto su di voi per capire che cosa stia succedendo loro. Il punto centrale del film è che il protagonista non ha scelto quell’incarico- per essere medici o infermieri ci vuole una particolare vocazione- e l’impatto emotivo con quella realtà sarà per lui devastante, totalizzante, al punto da fargli perdere di vista qualsiasi altro aspetto della vita, compresa la sua famiglia.

Quello su cui vorrei soffermarmi è l’interessante tematica della responsabilità del traduttore in ambito medico. Si tratta di una figura poco diffusa e poco considerata, ma estremamente delicata a livello professionale e umano. Si tende sempre a soffermarsi sulla deontologia del personale medico, a considerare soltanto l’aspetto umano e professionale dei medici e infermieri, ma vi sono circostanze in cui tra medico e paziente è necessaria una figura esterna, spesso non preparata dal punto di vista del carico psicologico che tutto questo comporta, eppure fondamentale. La difficoltà del traduttore medico sta proprio nella sua natura ibrida, nel suo essere un pesce fuor d’acqua- non sa com’è fatto anatomicamente lo stomaco (sa solo come dire stomaco in un’altra lingua) e non è lui ad avvertire mal di stomaco- eppure l’unico che possa avere un quadro completo della situazione, l’unico su cui possano fare affidamento paziente e medico per assicurarsi della comprensione della situazione. Il problema è che troppo spesso i traduttori vengono inviati dalle agenzie a tradurre (o contattati da privati) senza neppure essere avvertiti del tipo di situazione che troveranno.

Immaginate di essere contattati per accompagnare “una persona a una visita medica”. Arrivate di fronte all’ospedale e vi trovate di fronte una bella signora con una bambina di circa 6 anni in sedia a rotelle, affetta da atrofia muscolare spinale. La vostra prima reazione sarebbe quella di voler scappare via, o scoppiare in lacrime, ma non potete farlo. Dovete cercare di comportarvi come se quello che avete di fronte fosse normale. Un altro vostro incarico è tradurre per un paziente “malato”. Emerge che la malattia con cui ha a che fare sono tumori multipli e diffusi. Vi telefona a mezzanotte, la morfina non fa più effetto, sente troppo dolore, vi implora di chiamare il professore da cui è in cura affinché persuada gli infermieri ad aumentargli la dose. Siete voi, umili traduttori, e non il professore in questione, a dover contattare i famigliari del paziente con il risultato dell’ultima TAC, spiegando che il tumore non è operabile e non ci sono speranze di guarigione. Sono parole semplici da tradurre, eppure il loro peso è gigantesco. La modalità in cui le riferirete diventa fondamentale. Come comunicarle con neutralità? Come restare indifferenti di fronte a tutto ciò? Se i robot avessero sostituito gli esseri umani completamente nelle funzioni di traduzione, il problema sarebbe eliminato, ma… vorremmo davvero sentirci comunicare di avere una malattia da Siri? Non è forse allora proprio la presenza umana ad essere importante, in situazioni così delicate? A differenza del protagonista del film, personalmente ho scelto di occuparmi di interpretazione in ambito medico, ma in fondo anche la mia è stata una scelta poco ragionata, guidata dagli eventi. Non sempre ero preparata psicologicamente ad affrontare ciò che avrei trovato, a gestirlo dal punto di vista del coinvolgimento emotivo personale con i pazienti. “Stai lavorando per loro, non sono tuoi amici”, mi ripetevo, ma come si fa a non socializzare con una bambina che in sala d’attesa per essere sottoposta ad iniezioni nel midollo spinale si mette a giocare con i tuoi orecchini? Come si fa a non piangere quando dall’altro capo del telefono si sentono i singhiozzi di un parente di una persona a cui hanno dato 6 mesi di vita? E soprattutto: come si fa ad accettare a cuor leggero di ricevere un onorario per tutto questo?

A mio avviso, il traduttore medico non è soltanto un mero comunicatore e mediatore, ma una figura che dovrebbe offrire anche un supporto psicologico ai pazienti (e che talvolta, dopo esperienze così toccanti, necessiterebbe a sua volta di un aiuto psicologico!!!). Spesso mi sono domandata se non fossi più un ausilio psicologico, che linguistico, per i miei clienti- alle volte la parte linguistica di traduzione era ridotta al minimo o non necessaria affatto, eppure i pazienti volevano che restassi con loro, perché rappresentavo ormai un punto di riferimento. Quando ci si fa curare in un Paese straniero e non si conosce la lingua, tra la propria malattia e il proprio salvatore si frappone un ulteriore ostacolo. Ci sono fili, tubi, macchinari orrorifici, ci sono esami con paroloni ancor più incomprensibili, persone che emettono suoni sinistri e ignoti in cui si cerca terrorizzati di cogliere una sfumatura di positività, il cenno di un sorriso nell’intonazione, sperando che si tratti di una buona notizia… c’è, in pratica, un buco nero, il buio. Questo buio può essere illuminato soltanto dall’interprete, e non è cosa da poco. Non basta illuminarlo, a volte occorre arredarlo, abbellirlo, edulcorarlo, e tutto questo universo che sta tra semplice accostamento di suoni e parole in una lingua, come “la malattia è peggiorata” e il tono di voce, la scelta delle parole da usare, l’espressione del viso con la quale le si riferisce… tutto questo sono pareti, divani, quadri, appesi in quella stanza buia.

La verità è che nessuno è preparato alla sofferenza e non esiste un corso rapido di empatia. Tutto nasce in modo spontaneo, con l’esperienza. Ci si deve trovare di fronte a certe cose per capirle e per affrontarle. Veronesi disse che il cancro è la più evidente prova della non esistenza di Dio. Nel film, una bambina russa immagina Dio vestito di bianco, con una lunga barba, e ne è terrorizzata. “Perché hai paura di Dio?”, le chiede il professore. “Perché si è portato via Nastya”, risponde la bambina (Nastya è un’altra bambina del reparto). Dostoevskij ne La leggenda del grande inquisitore pone come punto centrale che fa vacillare la fede in Dio di Ivan Karamazov la sofferenza dei bambini, degli innocenti- fino a che punto si può ricondurla al libero arbitrio? Forse dunque è proprio il libero arbitrio, concesso da Dio all’uomo, ad essere il vero problema. Le sfide difficili quasi sempre ci cadono addosso,  esulano dal nostro arbitrio. Chiunque si trovi di fronte ad una sfida, volente o nolente, non può che farsene sopraffare oppure provare a combattere. Dio può servire per affrontare ciò che verrà dopo, ma per ciò che abbiamo qui, ora, per la vita di tutti i giorni, è l’uomo il nostro salvatore, sono le persone che abbiamo intorno, che ci aiutano, a loro modo, ad andare avanti- i nostri cari, gli amici, i medici, i traduttori cui ci affidiamo. Al loro fianco, forse, le nostre battaglie potranno risultarci più accettabili.