Il nuovo Raskol’nikov: il gesto di Andreas Lubitz

La tragica vicenda del pilota omicida-suicida del volo Germanwings è sulla bocca di tutti. Cosa sconvolge così tanto (oltre alla catastrofe della morte di 150 persone)? Innanzitutto, il terrore ad alta quota è un tema assai accattivante, sarà per quell’innata e irrazionale paura di volare, sarà per la fobia post 11 settembre, sarà per il fascino terribile e inquietante di una gigantesca macchina dentro la quale ci sentiamo in completa balia di qualcosa che non possiamo controllare (cosa che in verità accade ovunque e in qualunque momento).

Ciò che lascia maggiormente interdetti, e su cui si sprecano i commenti dei giornalisti, è il gesto del copilota tedesco Andreas Lubitz: sembra che il giovane abbia volontariamente programmato l’aereo, approfittando di una temporanea assenza del pilota (era andato a fare la plin plin), per schiantarsi contro le Alpi, e abbia poi atteso lo schianto con respiro regolare e tranquillo. Un gesto difficilmente classificabile sotto una categoria standard, come quella del suicidio, e sotto un profilo psicologico altrettanto stereotipato, come quello del depresso. La domanda ricorrente è: PERCHE’? Il tentativo è quello di classificare questo gesto, razionalizzarlo per renderlo innocuo. Il copilota è un terrorista? Dopo l’11 settembre si abusa di questa parola, spesso a torto. Il terrore è ovunque perché il terrorista è il nostro vicino. Il terrorista siamo noi. L’Isis esulta sui social network di fronte al gesto di Andreas, ma ciò non significa affatto che egli simpatizzasse per simili correnti. Ad oggi non esistono prove a favore del fatto che si tratti di un atto terroristico, anche perché manca il messaggio, il movente. La fredda operazione programmata di omicidio- suicidio necessita di un senso, perché per la mentalità occidentale (in particolare) è inconcepibile l’idea di togliersi la vita privandone anche gli innocenti che ci circondano e di cui abbiamo responsabilità. Non a caso, tra i precedenti che vedono piloti schiantarsi con il proprio aereo deliberatamente, uccidendo tutto l’equipaggio, uno fra i primi fu un giapponese. Nella mentalità orientale il rapporto con il proprio corpo è differente. Il corpo è un poco più che un avamposto, ciò che conta maggiormente è l’anima immortale, cui il corpo può essere sacrificato, per realizzare un disegno più grande. Per “noi”, che ci riteniamo i gloriosi portatori della cultura e della filosofia occidentale, del logos, della scienza, del monoteismo, del comfort e del libero mercato, diviene incomprensibile concepire di arrivare a disprezzare a tal punto la vita propria e altrui da annientarla senza alcuno scrupolo, e per di più senza apparente motivo. Il kamikaze non è concepibile, perciò spaventa fortemente rendersi conto che sta prendendo piede, che anche in occidente può esistere un tipo di mentalità del genere. Per questa ragione fanno tanto scalpore i latitanti italiani che vanno a combattere in Ucraina una guerra non loro. L’Ucraina non è occidente, ha una mentalità ibrida che deve moltissimo a quella russa, dove il capitalismo ha preso piede in maniera differente, dove i valori sono quelli classici: l’unità territoriale, la religione, la divisione tra stati. Funziona ancora la guerra in trincea, ma nell’Occidente colpito dagli aerei contro le due torri non c’è più trincea.

Andreas è forse un kamikaze? Ci sono delle affinità con gli attacchi suicidi eseguiti dai piloti giapponesi contro le navi nemiche durante la seconda Guerra Mondiale. Non fosse che, però, Andreas non era un soldato, era un pilota civile di un volo di linea pieno zeppo di bambini e ragazzi. Non fosse che Andreas non stava combattendo una guerra. O almeno, a quanto ne sappiamo. Forse combatteva una guerra interiore. Una guerra fatta di quel miscuglio di sensazioni che si insinuano in menti apparentemente sane, lucide. Un odio crescente verso se stessi, verso l’esistenza, il mondo. Una progressiva alienazione da sé, la ricerca spasmodica di un capro espiatorio che possa giustificare l’orrenda voragine di assenza di senso che è la vita, inspiegabile, frustrante, fugace. Un uomo comune uccide uomini comuni con un gesto plateale, trionfale, grottesco, e forse pensa d’essere straordinario. Il Raskol’nikov di un secolo fa aveva caratteristiche differenti. Il suo disgusto per la società e per se stesso prende forma nell’immagine della vecchia usuraia, implode ed esplode nel gesto estremo del colpo di scure. La vecchia è il male del mondo, è il nemico da battere, il tramite per diventare un uomo straordinario, perché la sua cupidigia, la sua piccolezza, la sua bieca umanità è insostenibile. La vecchia diviene un simbolo, un capro espiatorio nel quale incanalare la propria rabbia e frustrazione e renderla universale nel disperato tentativo di distinguersi dalla massa, di auto-proclamarsi come uomo straordinario, cui il delitto è permesso. Raskolnikov fa del male fisico agli altri per fare del male (psicologico) a se stesso, e poi ha le “palle” di spiegare perché l’ha fatto, di assumersene la colpa e scontare la pena. Il nuovo Raskol’nikov è del tutto diverso. Il suo “male di vivere” è (auto)distruttivo perché egli è il centro del mondo, la sua sofferenza deve divenire anche quella altrui, il suo odio deve spazzare contemporaneamente l’Io e il mondo e uscire di scena senza alcuna parola, muto perché assoluto, totale, inesprimibile attraverso il logos. Il Raskol’nikov dell’era dei social network è nichilista, non crede più neppure in se stesso, dunque non c’è nulla di straordinario in ciò che compie. E’disorientato, perché non riesce ad identificare un preciso nemico. Il nemico è globale, è ovunque, il nemico è tutto e niente, una massa indistinta, il nemico è innocente, più della vecchia. Non ha un volto, ne ha cento (anzi, 150), sono i volti anonimi, mai visti e già dimenticati, dell’uomo comune. Il nuovo Raskol’nikov si auto-priva della possibilità della confessione e della giustificazione, perché di fatto non ne ha alcuna. Il radicalismo del suo gesto è talmente orrendo da non avere senso, come non ne ha la vita dell’uomo comune, ed ecco che egli, attore e autore in un teatro di violenza, ripete il circolo vizioso di compiere gesti insensati all’interno dell’assenza di senso, per poi scolpirne nella montagna uno assoluto, predestinato, ovvio: la morte.

Chi salverà l’uomo occidentale, prigioniero della paura, vittima di una misantropia iperbolica che assume i connotati di un gigantesco Avatar di immagini del profilo di utenti anonimi che inneggiano all’annientamento della razza umana? Forse solo un’entità virtuale può salvarci da un nemico globale. Il cockpit dell’aereo, ovvero la cabina di pilotaggio, è programmata in modo da potersi chiudere ermeticamente e divenire una sorta di panic room, un’arma a doppio taglio per il pilota: difendersi dai terroristi ma anche da se stessi e rimanerne, paradossalmente, chiusi fuori. Chi può dunque evitare una ribellione dall’interno, un “cancro” dell’equipaggio, se non un essere non interno, cioè non umano? Un robot in grado di comprendere che l’aereo è stato programmato per una manovra distruttiva e dunque in grado di impedirla (non eseguirla). Un’intelligenza artificiale capace quantomeno di spiare ciò che accade sull’aereo e mandare un messaggio alla torre di controllo. Un robot di questo tipo sarebbe in grado di decidere e quindi anche di uccidere? Chi può dirlo. Forse è un rischio che vale la pena di correre. Perché se la violenza non si può capire, che almeno si tenti di evitarla.

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