Il monologo de Le notti bianche

Al teatro Libero di via Savona a Milano in questi giorni danno una rivisitazione de “Le notti bianche” di Dostoevskij, diretta ed interpretata da Corrado d’Elia.
La cosa singolare ed inaspettata è che si tratta di un monologo. Mi aspettavo di trovare almeno due attori, “il sognatore” e Nasten’ka, ma Corrado d’Elia, seduto su uno sgabello e di bianco vestito, circondato da graziose lampadine a guisa di stelle e da uno sfondo cubico a scatola molto minimalista, sostiene da solo la parte di entrambi i personaggi della più romantica opera di Dostoevskij. Devo dire che la recitazione di d’Elia è ottima e molto coinvolgente, e che il tono tutt’altro che monocorde dei dialoghi che pronuncia, delle esclamazioni, delle uscite non annoia, nonostante il monologo sia una tipologia difficile da sostenere, soprattutto se applicata ad un’opera che non nasce come tale.
Il riadattamento di d’Elia è interessante, si fa seguire per un’ora e diviene simpatico, i dialoghi sono semplificati e reinterpretati in maniera accattivante. L’unica pecca che mi permetto di obbiettare è la seguente.
Ciò con cui- in maniera assolutamente unica, perfetta, commovente- Dostoevskij chiude le “Le notti bianche” è un geniale aforisma, paradossale e provocatorio, che mi fa sussultare ogni volta che lo penso e racchiude il senso di tutto il romanzo:
Боже мой! Целая минута блаженства! Да разве этого мало хоть бы и на всю жизнь человеческую?..
“Dio mio! Un intero minuto di beatitudine? E’ forse poco per colmare l’intera vita di un uomo?”
La frase è pruriginosa, ardita, quasi inaccettabile. Certo che no, che un minuto di beatitudine non è sufficiente per saziare un’intera vita- viene immediatamente da rispondere, quasi offesi! Eppure…una volta entrati all’interno del mondo sognato del sognatore, delle sue notti bianche passate a pensare ad occhi aperti, a fantasticare su un mondo magico fatto di dolci illusioni, di gioia e di ideali di cristallo e oro, una frase del genere diventa persino accettabile. E’ estremamente commovente farla aderire ad un personaggio che della vita in fondo ha sempre avuto terrore: il terrore che essa lo deludesse, la paura del reale. Nel suo mondo rassicurante di sogni, nel suo rifugio ideale, egli non ha mai affrontato l’impatto crudo e poco imbellettato con la realtà di ogni giorno, fatta di autobus che ritardano, imprecazioni, brutti voti, licenziamenti, lavori faticosi e quant’altro; eppure, per la prima volta, parlando con una donna vera, Nasten’ka, di cui immediatamente si innamora, egli entra nel mondo reale. Un mondo che, inevitabilmente, lo deluderà (Nasten’ka ama e aspetta da un anno il ritorno di un altro uomo, e vede il nostro sognatore nel classico modo fintamente ingenuo in cui tutte le donne dicono di vedere colui da cui non sono attratte: come un amico), ma che egli, ciò non di meno, ha amato. Amato perché nessuna emozione sognata può, naturalmente, competere con quelle realmente vissute. Ed è lì che arriviamo persino a dargli ragione. Quell’intero minuto di beatitudine, in fondo, è tutt’altro che comune ed è davvero sufficiente. E’ un istante di felicità assoluta, e come dice il sognatore, è già bello che capiti anche solo una volta di provarlo, ma soprattutto di rendersene conto. E’ l’attimo in cui abbiamo un’intuizione fugace, direi quasi istantanea. La più preziosa di tutte. Quel secondo di pura, totale, piena gioia che ci permette di pensare che: sì, ne è valsa la pena. Di essere gettati al mondo contro la propria volontà; di aver sopportato innumerevoli fatiche, vergogne, delusioni, frustrazioni, lacrime. L’attimo in cui la bilancia della vita pende dalla parte del: sì, lo rifarei. Sopporterei tutto di nuovo milioni e milioni di volte per vivere anche solo per un istante quello che non è altro che un istante.
Confesso che anch’io, in linea con il personaggio di Dostoevskij, fantasticavo su quella frase di chiusura della piéce; sognavo e attendevo con ansia l’istante in cui d’Elia avrebbe pronunciato quella frase. Mi pregustavo l’idea di come l’avrebbe recitata con la sua bravura d’attore, in maniera che difficilmente mi sarebbe capitato nuovamente nella vita di poter ascoltare, con quel tono. Ero pronta alle lacrime che quell’espressione avrebbe cullato e versato fuori dai miei occhi. Ebbene, quella frase non è arrivata- ed è stato in fondo splendido esser delusi, proprio come il sognatore dalla sua dama. D’Elia ha concluso facendo dire al suo personaggio che aver assistito alla scena in cui la sua Nasten’ka corre incontro ad un altro uomo “è stato un sogno…forse…tutto un sogno”. Non ha tutti i torti. Per me, sicuramente, lo è stato.