Il Grande Inquisitore

Consiglio vivamente di andare a vedere la pièce “La leggenda del grande inquisitore”, tratta da I fratelli Karamazov, recitata dal grande Umberto Orsini, al teatro Elfo in Corso Buenos Aires a Milano (fino al 7 dicembre). Orsini, di certo, non delude: è quel che si può definire senza indugio uno “splendido ottantenne”, scattante sul palco come un ragazzino, magistrale nell’interpretazione del bellissimo monologo sul racconto del Grande Inquisitore.

Devo dire che lo spettacolo inizia in maniera insolita e piuttosto irritante nella sua oscurità: una camera claustrofobica con luci fioche, un misto tra la stanza di un interrogatorio e una “sala operatoria della mente”; la grossolana scritta “fede” al neon ad intermittenza; la simbologia forzatamente allegorica degli oggetti di scena, che diventano sempre più ingombranti (ho apprezzato, però, l’utilizzo di un drone radiocomandato) e la quasi assenza di dialogo tra i due personaggi rendono i primi 20 minuti soporiferi e troppo marcatamente intellettuali per poter essere, più che apprezzati, compresi fino in fondo. Dopo di che, la pièce è una meravigliosa escalation: i dialoghi serrati tra il protagonista e la sua coscienza irrazionale ma pragmatica, tentatrice come il Diavolo, divengono sempre più profondi. Le domande sono le classiche dostoevskiane : il perché dell’esistenza e del male, il problema del libero arbitrio. Il tarlo che si insinua nella mente del protagonista è che l’uomo contemporaneo è individualista, poiché è impossibile condividere la sofferenza altrui, ma non sarebbe affatto una tragedia essere eterodiretti, radiocomandati come un drone. La libertà, scrive Dostoevskij, è un peso troppo grande per la coscienza, ed è in netta antitesi con la felicità. Di tutto questo libero arbitrio concesso all’uomo da Dio, secondo le Sacre Scritture, l’uomo non sa che farsene, e quando lo sa, commette il male. Questo è il perno del racconto del Grande Inquisitore, esposto da Ivan Karamazov, “storia nella storia”, che costituisce un capitolo del romanzo di Dostoevskij. Nella pièce è reinterpretato in chiave moderna, tanto che Orsini viene fornito di microfono da un’assistente che, freddamente, gli dice di avere 18 minuti per dire ciò che ha da dire. Sarà che Orsini è bravissimo, sarà che ciò che scrive Dostoevskij raramente è deludente, ma il monologo è eccezionale. La storia immagina che Cristo torni sulla Terra durante l’epoca dell’Inquisizione. E’acclamato dal popolo, ma il Grande Inquisitore, nelle sembianze di un vecchio, lo arresta e lo inquisisce, riservandogli un trattamento non dissimile a quello di qualunque altro uomo. Il concetto è: tu, figlio di Dio, che sei venuto a portare la libertà, verrai bruciato al rogo, perché ci stai mettendo i bastoni tra le ruote. Noi (clero, capi di stato, autorità terrene) da millenni stiamo cercando di dare agli uomini quello che vogliono: il pane e la sottomissione. Non cedendo alle 3 tentazioni di Satana, dando all’uomo la libertà, l’hai sopravvalutato, e di molto. Resistendo al Diavolo, Cristo non si è piegato a divenire un comune capo, (cioè un uomo) ricattando l’uomo con miracoli volti a placarne gli istinti materiali, o a dimostrazioni della sua esistenza e del suo potere tirannico. In questo modo, acquista senso la famosa frase di Dostoevskij: “l’uomo non cerca Dio, ma il miracolo, e si accontenta anche del miracolo di un ciarlatano“. Il messaggio di libertà e fede di Dio è oscuro. Alla libertà l’uomo preferisce il pane, preferisce credere a ciò che vede, sottomettersi ad un capo, ovvero un Dio minore. Gli “dei minori”, tra cui spicca il clero degli inquisitori, da anni sono stati tentati da Satana e giocano con gli uomini, sfruttando la loro incapacità di capire il mistero della fede.

Noto due concetti provocatori: il primo è quello che il clero sia satanico (e mi piace assai), il secondo è che la libertà, valore da sempre osannato, sia in contrasto con la felicità. In effetti è ben più comodo essere comandati, ci si libera di ogni responsabilità. La libertà è in contrasto con la coscienza umana, poiché, nella sua bassezza, non è in grado di comprenderla e usarla al meglio. All’uomo dunque, per essere in pace, converrebbe essere una sorta di robot programmato opportunamente da Dio: un essere razionale e buono, senza coscienza né libertà di struggersi, oppure un uomo 2.0 che possegga una razionalità tale da comprendere il disegno divino e la libertà in senso proprio (dunque un Dio). L’irrazionalità della fede coincide con ciò che si oppone alla logica: il mondo dell’istinto, dell’inconscio, dove nulla ha senso, e non esiste un perché. Solo in questo modo all’uomo è dato di avvicinarsi a Dio: come un cieco, un folle, un sognatore. Dio è la risposta razionale cui ci si può avvicinare solo irrazionalmente. Eppure quella frase, che all’uomo non frega nulla di sognare ed essere libero, ma prima di tutto del pane, ha una forza ineluttabile. Tra la soddisfazione dei bisogni mondani, in allegra compagnia del Diavolo, e il desiderio di comprendere l’assurdità di un mondo cattivo e insoddisfacente, cioè di non essere più uomo, sta lo splendido dramma dell’esistenza. Siamo squarciati dalla dicotomia tra il cercare un senso e il credere, tra l’essere liberi e il voler essere schiavi, tra il sognare l’esistenza di un capo migliore e perfetto e il sottometterci ad un capo qualunque. Ma di questa vita, come recita la pièce, non ci si riesce a stancare, perché la si ama follemente, fino all’ultimo istante, senza un motivo. Al punto di desiderare di riprodurci, di donarla ad altri sciagurati esseri sofferenti. Contro ogni ragione, logica e morale.grande inqu grande inquisitore