I luoghi di Pietroburgo: alla ricerca dell’essenza perduta

C’è qualcosa di profondo legato ai luoghi. Forse la chiave è nell’asfalto, la terra. Il pavimento del posto in cui si passa, a guardarlo bene, non è piano, e nemmeno in salita. E’ concavo. I luoghi sono conche in cui gettare una serie di pensieri, profumi, di oggetti e di emozioni. Dentro quelle culle, si crea un contatto tra la propria presenza mobile e quella fissa di ciò che non ha un’anima. Da quel momento in poi, un luogo non è più soltanto tale. Diventa il luogo dove. Dove piansi, dove mi sorpresi, dove mi persi, dove fui, e con chi, soprattutto, mi trovai.

E’ interessante ripercorrere gli stessi luoghi dove si era già stati, ma anni dopo. E’ come riprendere un libro, letto distrattamente quando si era troppo immaturi per capirlo davvero. Provo un particolare gusto nel visitarli in solitudine, perché riesco ad ascoltarli meglio. Poiché “non si può entrare due volte nello stesso fiume”, in quelle culle tutto appare vecchio e nuovo insieme. Il presente si mischia ai ricordi del passato, e ne viene fuori una sovrapposizione di sensazioni, che copre ma non cancella. Ammonticchia. La cattedrale del Sangue Versato a San Pietroburgo per me, è uno di quei luoghi. E’ la quarta volta che vi passo accanto, in cinque anni. Ogni volta il cielo intorno a lei, d’estate, è di un azzurro perfetto, quasi si fosse messa d’accordo con lui, per far risaltare il suo oro. Ogni volta mi mostra una facciata nuova. Ogni volta le sue cupole, e il canale stesso, si mettono in posa da un lato diverso, vanitose e superbe. Quest’anno mi ha mostrato la sua schiena splendente attraverso travi e tubature arrugginite. Dentro un cortile di rifiuti, tra macchine dalle gomme sgonfie e un museo delle macchinette automatiche di epoca sovietica, sono apparse le sue croci dorate. A ricordarci che l’anima della Russia forse è proprio questo sfacciato contrasto. A pensarci bene, però, c’è qualcosa di più. Forse, in un luogo, l’anima non ce la mettiamo noi. La sua essenza appare e scompare, si rivela e si cela, ma è indipendente da chi ci mette piede sopra. Quella cattedrale è tutta una serie di cose, il cui insieme, impossibile da afferrare del tutto, ne riflette l’essenza: è il canale Griboedov che le fa da passerella liquida. E’ il giardino d’estate che la contorna come una corona d’alloro. E’ il vecchio agghindato di broccato, sotto di lei, strappato da un libro di elfi, che offre la lettura del futuro. Sono tre spose bianche, ricamate e illuse, che si fanno fotografare sul suo sfondo.

Ogni luogo di Pietroburgo mi sta parlando. Mi sta lasciando un’impressione, scegliendo di mostrarmi qualcosa di sé. Ho accettato l’invito di Vladimir Nabokov a vedere la sua collezione di farfalle. Non è una metafora. Ne collezionava parecchie, sono conservate nelle teche nella sua casa padronale, sulla Bolshaya Morskaya. Nella sua dimora c’è odore di vecchio, le luci sono soffuse, la sua giacca di lana è in vetrina, come una stanca immagine riflessa del suo corpo presente- assente. Lungo le scale del palazzo, troneggiano vetrate decorate, stucchi, legni pregiati. Poi appare, in una stanza, una vecchia signora con il foulard in testa, a guardare il film dove la zia di Nabokov racconta la sua vita. E di nuovo una sensazione di decadenza lascia il posto all’opulenza. L’essenza di Nabokov, della sua vita in quel luogo, è nella polvere delle ali di farfalla, è dentro gli armadi scuri, negli interstizi delle travi di legno. Inafferrabile, eppure onnipresente.

C’è la casa-museo del cioccolato. Deludente come solo certe cose russe possono esserlo. Angusta, sotterranea, soffocante. Fa un caldo incredibile, e non esiste aria condizionata nei luoghi chiusi, perché Pietroburgo è sopraffatta e sgomenta dall’afa estiva, come il Titanic dall’iceberg. Il cioccolato è accatastato in vetrine lungo le pareti, grossolano nella fattura. Quelle casette, quei conigli commestibili sono intrappolati come un mucchio di cianfrusaglie d’epoca. Incredibilmente non si sciolgono, ma appaiono inutili ed indesiderate, proprio come le chincaglierie da museo. Sono nate vecchie. Poi c’è la regalità del “negozio dei mercanti Eliseev”, una raffinata gastronomia sul Nevskij Prospekt, elegante e curata come un negozio di giocattoli a New York. Tra l’oro e il velluto, tra il liberty e il barocco, il caviale e i formaggi, questo luogo turistico forse è più che una sala da the in stile parigino. Mostra l’equilibrio ibrido di Pietroburgo, in bilico tra Russia ed Europa, tra gusto nordico, orientale e francese.

Una città è la somma matematica dei suoi luoghi più caratteristici? Ovviamente no, li comprende ma li supera. Così Pietroburgo appare attraverso i suoi luoghi, trascinandoti a scoprirla, come lungo un sentiero di petali, ma senza mai concedersi del tutto. A volte si palesa come un’austera sacerdotessa colma d’oro e trascendenza, a volte come una zingara beffarda, spesso come una barocca sirena. E’ un cioccolatino dall’involucro minuzioso, lucente e ricercato, di cui non sapresti dire l’esatta provenienza, e che all’interno si rivela poroso, un po’ provato dagli sbalzi climatici. I suoi luoghi hanno molti risvolti, mille strati. Si fanno scoprire lentamente, e nella delusione che a volte il loro didietro spartano e flaccido rivela, sta la meraviglia del loro fascino. Dietro alla ricchezza è sempre in agguato la decadenza, dietro l’uomo, la bestia; sotto il potere e la grandezza, attende la misura standard delle bare. Ma questa è un’altra storia.

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