VKontakte, il Facebook russo: anarchia o sottomissione all’impero della rete?

Se in Europa il social network più usato è Facebook, in Russia è VKontakte (che significa: “in contatto”). Il portale è strutturalmente molto simile a quello di Facebook: c’è il proprio profilo, amici da aggiungere, si pubblicano foto o commenti. La differenza sta in un “piccolo”dettaglio: su VK si possono scambiare film e canzoni, fregandosene altamente dei diritti d’autore. Per questa ragione, in Italia è stato oscurato su richiesta al tribunale di Medusa Film, con mia grande delusione iniziale, perché la mia collezione di canzoni era fantastica da ascoltare per strada, inoltre non avrei più potuto relazionarmi con i miei amici dell’est (ma c’è ugualmente un modo per accedervi; basta scaricarsi un browser che non entri su VK attraverso network italiani). C’è chi protesta, dicendo che questa è censura retrograda, che è un attacco contro la rete (dato che i diritti d’autore vengono violati anche su Facebook, in altre maniere). Senza contare che si tratta dell’ennesimo passo indietro nei rapporti Italia- Russia- assai convenienti, visto che è tra i nostri maggiori clienti in quanto a prodotti italiani d’esportazione. L’Italia, sulla questione dei copyright, si è dimostrata ben più intollerante e autoritaria della tanto temuta Russia del luogo comune occidentale.

Vkontakte

Dietro a VK c’è un ragazzo, classe 1984, che dai media è dipinto come una leggenda: Pavel Durov, di San Pietroburgo, che ha passato l’infanzia a Torino. C’è chi lo vede come un anarchico ribelle (e vegano), chi come un pupillo di Putin, chi come un fuoriclasse, chi come il Mark Zuckeberg russo. Fatto sta che Durov, dopo ripetuti screzi con il governo russo, è ufficialmente stato licenziato dalla sua posizione di CEO di VKontakte. La causa pare risieda nel “gran rifiuto” di Durov di consegnare ai servizi segreti russi informazioni personali di utenti su VKontakte legati al dissenso al Maidan di Kiev. Più che il digiuno, in questo caso, poté l’onore, e Durov, da vero duro(v) qual è, ha rinunciato alla sua poltrona. Ora, dunque, il social network è sotto il completo controllo di Putin e dei suoi “uomini” (i milionari Usmanov e Sechin). Il “quarto potere“oggi non è tanto la stampa, quanto la rete, e la possibilità di controllarla è ovviamente lusinghiera per i leader mondiali. Il Grande Fratello di George Orwell ci spia con il suo occhio telematico e controlla ogni nostra mossa. Sta all’intelligenza (e alla decenza) di ciascuno esporre sui social networks, senza alcun criterio, i propri pensieri, le foto delle proprie vacanze e dei propri piedi al mare e via dicendo. Fare “check in” nei bar e ristoranti, così da essere immediatamente localizzato, significa non avere più alcuna privacy, e neppure alibi. Significa non poter più mentire. Chi è senza peccato, usi i social network. Sicuramente Raskol’nikov non si sarebbe iscritto a Facebook, meditando di uccidere la vecchia usuraia, altrimenti il commissario Porfirij non ci avrebbe messo tanto a fargli confessare il delitto, e il capolavoro di Dostoevskij si sarebbe, ahimè, trasformato in un raccontino di due pagine. In risposta alle tracce che lasciano i social network, Pavel Durov e suo fratello Nikolay hanno da poco creato, sulla scia di What’s up, una nuova chat, Telegram, con la quale è possibile inviare anche messaggi crittografati e che si “autodistruggono”. L’unica via di fuga al controllo globale sembra essere quella degli snap shot o snap messages, che durano un istante e non lasciano traccia. Sarà vero? Spariranno sul serio?

Durov e Putin, ad ogni modo, sembrano essere due facce della stessa medaglia: l’uno promulga l’anarchia sulla rete, l’altro ambisce al controllo totale della rete. Si parla sempre dello stesso sistema, dello stesso campo da gioco. Hardt e Negri, nel saggio intitolato “Impero“, avevano predetto che l’impero del web tentacolare si sarebbe esteso in tutto il globo e avrebbe invischiato chiunque con le sue subdole trame. Non si può non rimanere incastrati nella tela di ragno della rete. Se ci si ribella, si finisce per vivere fuori dal mondo, come negli anni 80, con il fax, il telefono con i fili e il cellulare senza la fotocamera. Non conta nulla fare gli snob e cancellare la propria registrazione su Facebook, oppure ostinarsi a non iscriversi. Non c’è scampo. Quello che sta cambiando è tutto l’assetto della società, del sistema e dell’economia mondiale. Si tratta solo di capire quale grande occhio ci sta controllando o ci controllerà, e sperare che quell’occhio non sia troppo stupido o crudele. Il rischio è quello di cadere (forse ci siamo già caduti) un sistema statico, fuori dal tempo e dalla storia, che non si limita ad amministrare un territorio e la sua popolazione, ma che non ha confini e crea la società, plasma le menti. Il nuovo capitalismo tentacolare, che Hardt e Negri chiamano “impero” (termine fuorviante, perché non ha nulla a che vedere con gli imperi del passato né con l’imperialismo dell’800), va oltre al concetto di nazione, oggi in decadimento, e “non si limita a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare direttamente la natura umana. L’oggetto del suo potere è la totalità della vita sociale; in tal modo, l’Impero costituisce la forma paradigmatica del biopotere. Infine, benché l’agire effettivo dell’Impero sia continuamente immerso nel sangue, il suo concetto è consacrato alla pace – una pace perpetua e universale, fuori dalla storia.”

All’homo sapiens sapiens sta progressivamente sostituendosi l’homo socialis, che deve assolutamente condividere sulla rete ogni cosa che fa (sharare, postare, come dicono gli orridi inglesismi che imperversano). La sua mente è lobotomizzata dalla lusinga dell’esibizionismo, del protagonismo e del voyeurismo. Il suo interlocutore è un pubblico indefinito e poco pensante (il suo Ego). La sua nuova lingua è ermetica, grossolana, ibrida e povera: un inglese italianizzato, che forse diverrà il nuovo esperanto. Per lo più quest’uomo non parla, ma mette dei “like”. Il mondo nel suo cervello è diviso in categorie dicotomiche, tipo buono o cattivo, bello o brutto. A lui qualcosa piace o non piace, senza altri ragionamenti. Ciò che lo governa e lo plasma tacitamente non è un individuo, ma un’entità inanimata fatta di fibre ottiche. L’homo socialis si auto- influenza, si ingarbuglia, vive di nuove (false) credenze, alimentate da piccole nozioni di Wikipedia. E’ onnivoro, ingordo: per lui è tutto interessante, tutto degno d’essere pubblicato e cliccato, cioè niente. Di fronte alla divulgazione di massa della morbosità e della stupidità, la censura sui social network comincia a non apparire più così sbagliata. Il problema è: chi è l’arbitro assoluto, dove non esistono più regole né capitani? Se il virus anti-culturale della rete si può combattere, l’unica via è quella di farlo partendo dall’interno, usando i suoi stessi mezzi divulgativi, perché non c’è un fuori: la rete è dappertutto. La rete siamo noi.

E voi, cosa ne pensate dei social network?

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