Essere Raskol’nikov

C’era quel film con John Malkovich, chiamato “Essere John Malkovich”. I protagonisti entravano in una sorta di tunnel, e vivevano per qualche minuto nei panni, nel corpo, nella mente di John Malkovich, sovrapponendovi la loro coscienza. Ho sempre desiderato essere Raskol’nikov. Vedere con i suoi occhi, percorrere le strade che Dostoevskij immaginava- ma che esistono realmente, e dove ha vissuto.

San Pietroburgo è possibile. Si può essere un personaggio letterario. Si può fluttuare tra realtà e immaginazione, vivere per qualche ora nella mente di Dostoevskij, e più precisamente della sua più maestosa, terribile e perfetta creazione letteraria. Per il “Raskol’nikov tour”, mi è capitata la fortuna di avere la mia insegnante di letteratura russa come guida, aiutate da una mappa e da un libro molto raro e interessante, “La Pietroburgo di Dostoevskij” di Vera Biron.

La zona è quella della Sennaya Ploshad, dove Dostoevskij visse per lungo tempo, in diversi appartamenti. Oggi, naturalmente, la piazza non è come doveva essere nell’Ottocento, ma conserva ancora un carattere sporco, caotico, popolare. E’ zeppa di mercatini, piccoli chioschi dove vendono cibo, bancarelle con ogni sorta di cianfrusaglia ma anche frutta e verdura a poco prezzo, mendicanti. Se si è fortunati, ci si può imbattere persino in un sosia contemporaneo di Dostoevskij in versione senzatetto, su una panchina che sprofonda nell’asfalto, sormontata da grosse ruote, come un carro abbandonato. Si respirano gli odori del cibo e dell’acqua, e con un po’ di fantasia ci si può figurare il mondo dei piccoli mercanti dell’epoca trafficare, confabulare, affaccendati nel racimolare qualche rublo. Dietro la piazza, ecco il canale Griboedov (ai tempi Ekaterinskij). Nel romanzo viene chiamato dispregiativamente “kanava”, (che in russo significa fosso, scolo) per via del suo aspetto torbido e degli odori che esalavano dalle sue acque, in cui gettavano l’immondizia. E’onnipresente tra le viuzze dietro la piazza, assediate. Fa curve che paiono volute, garbugli bagnati che non abbandonano mai chi vi passeggia: lo si lascia a destra e ce lo si ritrova a sinistra, come in un sinistro prodigio, per cui la sua forma sinuosa ci sfugge. Quel serpente d’acqua che ci accerchia sembra seguirci, come seguiva l’omicida e le sue ossessionanti intenzioni, passo dopo passo. Al numero 14 dello Stolyarnij Pereulok, che incrocia con la via Kaznachejskaya, Dostoevskij visse tra il 1864 e 67 e compose “Delitto e castigo“. Una targa in sua memoria permette di localizzare immediatamente la casa. Le palazzine in cui visse Fedor Mikhailovich erano sempre d’angolo, all’incrocio con due o più vie, forse perché avessero più facce da cui guardare ed essere guardate. Il quartiere è  residenziale, non molto trafficato. Non lo si può definire degradato, ma le sue case vecchie paiono muraglie di cemento, dentro cui non è dato sapere ciò che accade. Case che forse nascondono scatolette e scatoline con chincaglierie di poco valore e tende ingiallite. Guardando con attenzione, spiando tra le finestre, si scorgono le brande cigolanti e ammassate di un ostello, il mobilio semplice di qualche appartamento, di cui sembra di scorgere persino la polvere, la docilità del legno stanco. Proseguendo per la via, ci si imbatte in un’altra casa interessante: quella dove si pensa vivevesse Raskol’nikov. Prendiamo l’incipit del romanzo: «In una giornata straordinariamente calda del principio di luglio, verso sera, un giovane, uscito dalla stanzetta che aveva in subaffitto nel vicolo di S., scese in strada e lentamente, con l’aspetto di una persona indecisa, s’avviò verso il ponte di K. Nella strada faceva un caldo tremendo, afoso, per di più c’era ressa, e calcina, legname, mattoni, polvere da tutte le parti, e quello speciale lezzo estivo, noto a ogni pietroburghese che non abbia la possibilità di andare in villeggiatura: quest’insieme di cose scosse in modo sgradevole i nervi del giovane, che erano già abbastanza sconcertati”. Dunque, con “vicolo S.” s’intende proprio lo Stolyarnij pereulok, all’incrocio con la via Malaya Meshanskaya, che oggi si chiama Grazhdanskaya, 19. E’ una palazzina gialla, e il suo modesto appartamento, secondo il romanzo, doveva trovarsi al quarto ed ultimo piano. La palazzina fu colpita da un’alluvione nel 1823, dove l’acqua arrivò a coprire quasi tutto il pianterreno. Ecco il bassorilievo dedicato all’anti-eroe. Vicino al campanello, scorgo strane tracce di vernice rossa come sangue. Che siano intenzionali? Di lì R.R.R. uscì per una piccola prova pre- delitto, e si diresse per la via più breve verso la casa della vecchia strozzina (contando i passi, esattamente 730). Il giorno dell’omicidio, invece, scelse una strada più lunga. Spuntò sul canale, oltrepassò il ponte Kokushkin (“ponte K” nel romanzo) e girò a destra sulla Bolshaya Sadovaya costeggiando il parco Yusupov, proseguì per il Voznesenskij prospekt e giunse alla strada che incrocia il canale Griboedov, 104, che oggi si chiama Srendyaya Pod’yacheskaya, 19, dove pare abitasse la vecchia- una casa che da un lato si affaccia sul canale, dall’altro sulla strada. Il clima aiuta molto nell’immedesimazione: il cielo è grigio, ci sono ventidue gradi ma un’umidità che ne fa percepire molti di più. La terra è chiazzata di pozzanghere, resti della recente pioggia di mezzogiorno. Del sole non c’è che una flebile traccia, fioca e ingiallita come il viso di un malato. Gli edifici e il canale sembrano sudare, coperti di una patina sporca, plumbea, opprimente. Siamo finalmente di fronte alla famigerata casa! Siamo pronte a salire ed uccidere Alena Ivanovna e poi la povera sorella Lizaveta. Miracolosamente, come allora, la porta della palazzina è aperta. Pare che capiti di rado, anche in questo caso abbiamo avuto fortuna. Non c’è nessuno, come non v’era quando vi entrò Raskol’nikov. Saliamo a destra, indisturbate, fino al quarto piano della prima scala, passando per pianerottoli angusti e fatiscenti, per scale di pietra crepata e tetra. Fa insopportabilmente caldo, tutto è perfetto per innervosirsi e perdere la ragione. Ci sono ancora le vecchie caselle di legno della posta. A stento ci stanno due persone, nell’androne, dove scorgiamo tre porticine scure, blindate. Ecco, la vecchia doveva abitare proprio in una di queste, quando Raskolnkiov le suonò al campanello, con il cuore che batteva all’impazzata! Dopo i delitti, scendiamo le scale e immaginiamo che una delle porte degli appartamenti al piano di sotto sia aperta- quella, dove lavoravano gli imbianchini, in cui Raskol’nikov si nascose quando alcuni avventori fiutarono che qualcosa che non andava, e tentarono di entrare in casa della vecchia. Senza che nessuno ci-lo veda, poi, infilata la scure nel cappotto, usciamo dalla casa e ci gettiamo dal lato del canale, l’unico che ci guarda sempre, che sembra conoscere il nostro delitto. Fingendo indifferenza, torniamo per via più breve allo Stolyarnij Pereulok (casa di Raskol’nikov), a riporre la scure vicino all’ingresso. Appena usciti dalla casa della vecchia, voltandosi a destra, scorgiamo, proprio come nel romanzo, le cupole celesti della chiesa “Uspenya“, gli occhi chiari di Dio, che hanno visto il sangue e la scure.

La ricostruzione di un luogo del delitto immaginario non ha nulla di così diverso da quella di un delitto vero. Dostoevskij ha immaginato con così tanta dovizia di particolari la dinamica dell’omicidio, pur senza svelare in maniera esplicita la posizione di ogni luogo, che giocare con lui a risolvere la sciarada (grazie all’aiuto di sua moglie, che decifrò i suoi “codici”) soddisfa come con gli enigmi lasciati da un serial killer. Lo scrittore, con la sua maestria lessicale, ci dà letteralmente la scure in mano. Ci mostra davvero, in maniera subdola e tentatrice, come possa essere realizzabile un delitto di quel genere. Fornisce tutti gli strumenti perché il desiderio diventi azione. E’ lì che scatta qualcosa di inquietante, che l’immedesimazione oscilla sul baratro del fanatico eccesso, della precisa follia. La realtà dei luoghi in cui l’autore effettivamente visse si mischiano in maniera così perfetta con quelli del personaggio letterario, che in quel momento si insinua il sospetto. Per un attimo- davvero un istante, una sciocchezza!- arriviamo a credere che tutto ciò sia troppo ben descritto per essere solo finzione. Per un lasso di tempo di un centinaio di passi, Dostoevskij è Raskol’nikov, noi siamo Dostoevskij, e di conseguenza siamo Raskol’nikov. I livelli si sovrappongono in un dialogo eternamente ripetibile. Percorriamo un ponte, il Kokushkin, ma in contemporanea un ponte invisibile ci permette di diventare fantasia e passato. L’arte si è prepotentemente infilata in una zona “altra”, sospesa tra storia e immaginazione. Il labile confine tra l’intenzione e l’esecuzione, tra il peccato e la sua realizzazione, tra l’immagine mentale del sangue e i veri zampilli che potrebbero, e dico potrebbero, uscire da un corpo. Il brivido viene dal fatto che è così semplice uccidere. E’ questione di secondi. Di una scelta istintiva ma cruciale. Tra l’alzare la mano e abbassarla su qualcuno, tra l’afferrare una pistola e premere il grilletto; tra l’essere un rispettabile cittadino con molta fantasia o un folle assassino, corre qualcosa d’impalpabile, che ha la consistenza dello scatto, la brevità dell’attimo, ma il peso dell’infinito. Si ammazza per diverse ragioni e in svariati modi, ma da quel breve istante a quello successivo, l’assassino non sarà più la stessa persona. Mai più. Entropia dell’irreparabile: una volta che il colore è fuoriuscito dal tubetto di tempera, non può più essere inserito al suo interno. Dostoevskij ci illustra nient’altro che uno dei tanti assassini, che uccidendo due innocenti ha ucciso se stesso, ma la parabola della sua colpa e della sua pena ha lasciato una traccia indelebile, perché tutto è terribilmente plausibile. E forse allora il dubbio diviene iperbolico, diabolico: non è che, forse, Raskol’nikov esiste? Non è che è davvero “un uomo straordinario”? Non è certo lui ad esserlo, ma chi ha saputo fare di un gesto piccolo e riprovevole un Vangelo del male, che non incanta solo per la disposizione delle parole, ma perché in quei pensieri, in quel caldo devastante di luglio, in quella nausea del vivere, per un attimo (senza  tirare in ballo vecchie usuraie) ci siamo trovati tutti. Raskol’nikov è straordinario perché è vero. Quella netta sensazione di disgusto, di insofferenza verso gli esseri umani, verso se stessi, verso il fatto che (per parafrasare il romanzo) non si sa come, ma in una città quasi nessuno vive vicino alle fontane, le chiese, i giardini. Viviamo spesso in zone dove nulla può confortare la nostra vista, se non il cemento, i colori freddi e cupi. E’ questa la negatività e la miseria da cui non c’è via di fuga. Il tarlo che si insinua nella coscienza, perché in fondo c’è sempre qualcosa che non è come si vorrebbe, e che ci rende insoddisfatti di ciò che siamo, consapevoli del fatto che non faremo mai qualcosa di grande. Questo è essere Raskol’nikov. Essere uomo significa avere nella propria anima un Cristo e un Raskol’nikov. Non è detto che esista un attimo in cui siamo Cristo, ma credo che esista un momento infinitesimale, nella vita, in cui tutti siamo Raskol’nikov. E tra il dire e il fare, a volte, la distanza non è più lunga di un canale.

 

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