Erofeev, il Bukowski russo

A Mosca c’è un monumento, alla fermata del metro Dostoevskaja, nella “piazza Borby” (della battaglia), dedicato ad uno scrittore degli anni ’70 che potrebbe essere definito il “Bukowski russo“. Si tratta di Venedict Vasilevich Erofeev, morto nel 1990 a Mosca. La statua ritrae un uomo con una borsa, che si appoggia fiaccamente ad un rettangolo metallico, con scritto sotto: “Non ci si può affidare all’opinione di qualcuno, se quello non ha fatto in tempo a riprendersi dalla sbornia“. La frase fa riferimento all’opera di Erofeev, intitolata Moskva- Petushki, una sorta di monologo (autobiografico) del protagonista Venya, un ubriacone dalle velleità intellettuali, mentre compie la tratta in treno da Mosca a Petushki.

Nel romanzo assistiamo al viaggio allucinante di Venya sul treno, tra discorsi tra sé e sé, e con figure che gli compariranno nella sua perenne sbornia che cura con nuove sbornie. Venya parla con gli angeli, che gli consigliano un negozio dove trovare lo sherry; parla con Dio, che osserva che le stigmate di Santa Teresa non le servivano, ma le desidera, proprio come Venya con l’alcol: non gli serve a nulla, eppure è tremendamente desiderato; e persino con una strana sfinge mutilata, che gli pone enigmi assurdi dal punto di vista del buonsenso, ma corretti a livello matematico. Molto buffo è come inizialmente Venya, svegliatosi all’improvviso senza sapere dove si trovi, realizzi di essere a Mosca, alla stazione Kurskij, e rifletta sul fatto di non aver mai visto il Cremlino. “Cremlino, Cremlino; tutti ne parlano. Ho sentito di tutto su di lui, ma non l’ho mai visto. Quante volte (mille volte), ubriaco o con i postumi da sbornia, ho camminato per Mosca da nord a sud, da ovest ad est, da un estremo all’altro, attraverso, o come capita, e non ho mai visto il Cremlino“.

Il romanzo non è di grande spessore letterario, ma è diventato un “cult” per gli amanti del genere, ed è stato tradotto in molte lingue. Non è privo di immagini interessanti, come: “Mi piace che la gente della mia nazione abbia gli occhi così vuoti e convessi. Ciò mi dà un senso di legittimo orgoglio. Si può immaginare, che tipo di occhi ci siano lì. Dove tutto si vende e si compra…profondamente nascosti, in agguato, occhi predatori e spaventati…La svalutazione, la disoccupazione, il pauperismo…guardano con sospetto, con incessante cura e pena- ecco che occhi ci sono nel mondo del lucro“. Vi si trovano gustose e acute visioni del mondo, provocatorie e strampalate come la mente annebbiata di Venya: “Se una persona al mattino è cattiva, e la sera è piena di pensieri, sogni e sforzi- questa persona è molto sciocca. Star male di mattina e bene di sera è un segno di sicuro di un uomo stupido. E se accade il contrario- se uno al mattino è rinvigorito e pieno di speranze, e la sera lo avvolge l’esaurimento- questo è l’uomo spazzatura, testardaggine e mediocrità. E’ odioso a me quest’uomo. Non so per voi, ma per me è uno schifo. Certo, ci sono quelli per cui è tutto uguale, e di mattino, e di sera, e sono felici all’alba, e lo sono anche al tramonto- sono solo dei farabutti, e di loro non si può parlare che male. Beh, e se per qualcuno è sempre brutto, sia la mattina che la sera, qui io so bene cosa dire, che è un bastardo vile e fanfarone. Perché da noi i negozi sono aperti fino alle nove, e l’Eliseevskij anche fino alle 11, e se non sei un bastardo, riesci sempre verso sera a salire fino a qualcosa, a qualche abisso insignificante”.

Venya, alla fine del romanzo, viene ucciso da alcuni malviventi, che gli piantano un punteruolo alla gola. Interessante notare che lo stesso scrittore Erofeev morì per via di un tumore alla gola, quasi come che avesse scritto il suo destino nel romanzo. Tutto ciò ricorda il fatalismo di un altro grande classico della letteratura russa, “Un eroe del nostro tempo” di Lermontov, in cui, nel racconto “Il fatalista”, il protagonista, Pechorin, litiga con Vulich, dicendogli che vede la morte sul suo viso. Per tutta risposta Vulich, sprezzante, gioca alla roulette russa con una pistola, sparandosi un colpo in testa e restandone illeso. Tutti si salutano e vanno a casa, ma il giorno dopo Pechorin viene a sapere della morte di Vulich, ucciso a colpo di scabola da un passante ubriaco. Altrettanto interessante notare che, nel romanzo di Lermontov, Pechorin sopravvive a un duello con un amico divenuto suo rivale, mentre allo scrittore toccherà una sorte ben più amara: morirà proprio in un duello. Sembra dunque che in certi casi la finzione dei romanzi si mischi alla realtà, producendo interessanti coincidenze. L’autobiografismo presente nel romanzo di Erofeev arriva a superare lo stesso artificio letterario, e Venedict Vasilevich si ritrova intrappolato nel romanzo che egli stesso ha scritto; prigioniero del personaggio letterario e segnato da un analogo destino, proprio come Lermontov.

Questo Venya è simpatico, tragi- ironico. E’ un Bukowski bon ton, non troppo avvezzo a sconcerie, tutto sommato garbato nei suoi aneddoti. Ci fa sorridere con il suo modo di prendere la vita alla leggera. Il suo viaggio confuso ed ebbro è un’allegoria dell’irrazionalità, dell’illusione, ma anche della pesantezza del mondo, alleggerita dall’oblio e dalla vuotezza, dalla flebile speranza di qualcosa di migliore, di un rifugio, un’immagine consolatoria e sbiadita tra le visioni alcoliche. Venya attende di arrivare nella sua Petushki, dalla donna amata, dove gli uccelli cantano sempre e c’è sempre odore di gelsomino, e dove mai arriverà, perché si addormenterà e quando riprenderà i sensi, Petushki sarà lontana: il treno ha già ripreso la sua corsa opposta, verso Mosca. Quando troverà la morte per mano dei balordi, dirà che “da quel momento non ripresi più coscienza, e mai lo farò“. Tuffandoci con lui nel suo viaggio interiore ed esteriore, anche noi ne usciamo ubriachi. Confusi più di prima, ma leggeri, perché Venya è un po’ come il suonatore Jones di De Andrè, che “offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo“. Venya pensa ai soldi, alla sua bella, parla con Dio, ma ogni cosa che dice e che vive fluttua e fugge, con la stessa semplicità, delirio e voglia di quotidiana sopravvivenza, con cui potrebbe chiedere (come Jones) “al mercante di liquore, tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”. E questa leggerezza dell’essere è tutt’altro che insostenibile. Direi che è invidiabile. Perché Venya appartiene a quel genere di persone che vivono e muoiono così, senza una ragione, sorridendo, pensando di continuo a tutto, ma per non più di qualche istante, senza chiedere niente al mondo né inseguire ambizioni irrealizzabili, senza guastarsi la vita con la paura di perderla, ma oscillandovi dentro tra una profondità che svanisce appena pronunciata, come il vino dentro l’esofago. Una vita da cui si prende quello che c’è, perché di quello che non c’è si parla di continuo, ma meglio non crederci troppo. Una vita che, soli o in compagnia, viaggiando o fermi, non è più lunga di una canzone, vuota e piena come una bottiglia.

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