Accade a volte tra il cane e il proprio padrone, che la fisionomia di entrambi diventi simile- la spiegazione razionale è che lo era già, perché il padrone tende a scegliere il cane a propria immagine e somiglianza, quasi fosse una propaggine più primitiva di se stesso, un figlio a quattro zampe. Allo stesso modo piace tanto alle religioni antropomorfiche pensare che quando Dio creò l’uomo, lo fece a propria immagine. E’Dio ad essere simile all’uomo, o, più propriamente, l’uomo ad esser simile a Dio? L’uomo crea il suo Dio e quando lo deve raffigurare o immaginare, gli dona l’unico aspetto che conosce e che lo rassicura, ovvero il proprio. In questo modo il suo essere ignoto ed alieno diviene accettabile.
Nel caso delle donne dell’Hermitage, però, qualcosa non quadrava. Quelle donne non avevano scelto d’essere nel museo, e di fronte a quale quadro stare. Probabilmente avevano accettato un lavoro che avrebbe consentito loro di non fare troppo movimento, data l’età non più giovane- come quelle che stanno nei gabbiotti della metropolitana a controllare il funzionamento delle scale mobili; è stata la necessità a guidarle, non la volontà; mi permetto di supporre che l’assegnazione delle sale all’una o all’altra sia avvenuta in maniera altrettanto casuale, o comunque senza il loro intervento. Come si spiegava, dunque, la loro straordinaria somiglianza con le opere? Misteri della vita e dell’arte. Inganni dell’occhio, a cui piace creare analogie tra le forme? Eppure, qualcosa di magico c’era davvero in quel luogo- qualcosa di irrazionale: le signore parevano divenire polverose e statiche come i pezzi da museo cui erano poste accanto. In questo modo l’interesse verso i quadri si dilatava, diventando ampio come le sale dell’Hermitage. I colori e le pennellate si prolungavano a lambire quelle signore, immobilizzandole, sicché tutto- ogni cosa, ogni centimetro di quei luoghi- diveniva un dipinto. Anch’esse si erano tramutate, in un certo senso, in opere d’arte.