Blok come Archiloco: la routine può diventare magia?

Capita a volte di sentire il peso della routine, di una vita sempre uguale, di una giornata scandita dagli stessi avvenimenti: il suono della sveglia, il tragitto per andare al lavoro, l’ufficio, il ritorno a casa. Capita di cogliere certi elementi materiali e di associarli a quella routine, perché ogni giorno la nostra vista è colmata di quegli oggetti sempre identici. Di questa sensazione parla la bella poesia di Aleksandr Blok (1912) intitolata “Notte, strada, lampione, farmacia”. Il paesaggio notturno descritto da Blok è quello di una strada accanto ad un canale di San Pietroburgo, ma potrebbe essere qualunque parte del mondo. In ogni angolo della terra abitato è possibile trovare una strada, un lampione, una farmacia e, sopra di noi, ogni volta, la notte. Chiamerei questa sensazione il “sublime al contrario”. Solitamente gli eventi grandiosi, fragorosi, le manifestazioni di potenza della natura, suscitano nell’osservatore la sensazione del sublime (sempre che egli si trovi in un posto sicuro ad osservarli), cioè dell’ammirazione e terrore per la grandezza della natura, ma anche la consapevolezza consolatoria che proprio in quanto esseri pensanti siamo in grado di essere sopra tali eventi e abbracciarli con la mente. Il “sublime al contrario” di cui parlo è la sensazione peculiare suscitata da ciò che è piccolo, artificioso e non naturale, modesto e apparentemente deprimente, come un lampione, una strada, una farmacia.

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In ogni angolo della terra è possibile sentire l’oppressione di una vita monotona, in cui è la ripetizione stessa degli avvenimenti a suscitare la sensazione di mancanza di senso. L’occhio si stanca di vedere ciò che non muta, come l’orecchio si stanca di sentire gli stessi suoni, che si trasformano in vacue cantilene. Come quando ripetiamo la stessa parola più volte, e ad un tratto ci appare per quello che è senza il velo di distrazione che la avvolgeva: un agglomerato di suoni convenzionali, che di per sé non ha alcun senso. Ecco la poesia (la traduzione è mia):

Ночь, улица, фонарь, аптека,
Бессмысленный и тусклый свет.
Живи ещё хоть четверть века —
Всё будет так. Исхода нет.

Умрёшь — начнёшь опять сначала
И повторится всё, как встарь:
Ночь, ледяная рябь канала,
Аптека, улица, фонарь.

Notte, strada, lampione, farmacia,
Cielo insensato e pallido.
Vivi ancora almeno quattro secoli
e tutto sarà così. Nessuna via d’uscita.

Muori e ricominci da capo
Si ripeterà tutto, come in passato:
Notte, l’increspatura ghiacciata del canale,
farmacia, strada, lampione.

Le strofe ricordano certi componimenti di Ungaretti per la loro brevità. La monotonia espressa, accentuata dall’uso di parole ricorrenti, potrebbe essere accostata ad uno straordinario precursore della poesia ermetica. Parlo del poeta greco Archiloco, vissuto nel 600 a.C., ricordato come l’anticonformista per eccellenza, che nei suoi frammenti mostrava l’inconsistenza e l’insensatezza del mondo eroico, ridicolizzando le tradizioni. In particolare la sua poesia “Sul legno” (En dorì) ricorda quella di Block:

Sul legno della nave la focaccia è impastata,
sul legno della nave c’è il vino d’Ismaro,
sul legno della nave bevo stando sdraiato.

L’espressione “della nave” è un’aggiunta. In realtà la poesia cita solo il legno, utilizzando la figura retorica della sineddoche (la parte per intendere il tutto). Archiloco, ripetendo la parola “legno”, intendeva rappresentare la routine soffocante della vita di soldato mercenario, trascorsa sempre sulla nave. Una vita fatta di cose semplici e tutt’altro che eroiche, come impastare il pane e bere il vino.

In quella monotonia non c’è forse però anche qualcosa di positivo? Il riconoscimento di oggetti che fanno parte della propria quotidianità, che divengono familiari, fa acquistare loro  significato e persino vita, grazie alla coscienza di chi li osserva. In questo modo ogni angolo del mondo può diventare la propria casa, ed è esattamente questa sensazione a suscitare conforto nel viaggiatore, che altrimenti si sentirebbe un estraneo in ogni posto, smarrito, perso. Dunque gli stessi oggetti possono diventare un cappio al collo oppure un rifugio dorato, a seconda della coscienza che li osserva e del tipo di vita che contornano. Il fascino della “Terrazza del caffè di notte” di Van Gogh è proprio dato da questo: dal riconoscimento che può brillare ogni piccola strada, ogni fioco lampione, se a far rilucere quel mesto brulicare sono occhi entusiastici. Forse è proprio in quel momento, che avviene un rovesciamento della delusione del “sublime al contrario”: le cose piccole fanno acquistare senso alla vita. Concedetemi la licenza poetica di un pezzo che scrissi qualche anno fa, e che descrive bene la sensazione:

Le lacrime per la bellezza della vita e il suo mistero, la profondità del suo non-senso, possono sgorgare di fronte a qualcosa di estremamente piccolo e quieto, di raccolto e sperduto, e non osservandolo a distanza, ma trovandosi al suo interno, quasi come se, inizialmente, ci sentissimo distaccati da quel luogo modesto, ma poi capissimo di appartenervi totalmente, e cogliessimo il nostro esser piccoli come la cosa più magnifica ch’esista. Nel proprio esser uomo, e null’altro, si può cogliere la delizia dell’esistenza, la sua leggerezza ed inutilità, commista alla sua bellezza, la miseria della sua piccolezza e il trionfo del dettaglio concretissimo e minuto. Esso stesso è forse più grande e pregnante delle stelle del cielo: è l’attimo in cui lo si può toccare, calpestare quei ciottoli e cogliere la propria presenza nel mondo come un atto, puro e libero, senza senso, di esistenza.

Van Gogh
V. Van Gogh, “Terrazza del caffè di notte”, 1888

Una risposta a “Blok come Archiloco: la routine può diventare magia?”

  1. Questi pensieri mi hanno ricordato qualcosa che forse non voglio palesare, perché l’inconsapevolezza accresce la poesia, ma che mi ha fatto venire gli occhi lucidi. Capita raramente, leggendo blog su internet, di rimanere colpiti da parole che sfiorano l’anima. Il tuo modo di vedere e di scrivere le cose ci riesce. Complimenti.

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