Arrivederci, Donbass Arena

Dicono che una delle poche salvezze che abbiamo è la capacità di dimenticare. Purtroppo non è un processo volontario, né selettivo. Dimenticando l’orrore, cancelliamo anche la bellezza. Finisce tutto in un unico bidone dell’immondizia. Triturato e riciclato, tramutato in qualcosa d’irriconoscibile, oppure disperso.

Io non riesco, né voglio, dimenticare Donetsk, per quello che era tre anni fa. Lo stadio Donbass Arena gremito di gente, di proiezioni colorate, di entusiasmo e di stelle, quelle in carne e ossa che cantavano sul palco, quelle artificiali che il pubblico reggeva, quelle gassose che ricoprivano il cielo. Fu un evento grandioso, l’anniversario dei 75 anni dello Shakthar. Lo stesso stadio oggi è bersaglio dei bombardamenti. Il cuore pulsante di Donetsk è stato ferito. Il centro dove giravano soldi, giocatori, belle donne, sponsor, tifosi. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Del resto sono state ferite e uccise persone, ed è ben più grave di qualche colpo a uno stadio. Niente di strano, dunque, nel fatto che poco fa fosse colmo di allegria ed ora sia vuoto, grigio, semi- distrutto?

Perché dobbiamo ricordare, anche quando è doloroso? E’ l’unico baluardo che ci tiene attaccati alla chimera dell’eternità. Il ricordo è personale, soggettivo, forse come null’altro al mondo, eppure è un processo a più mani, che diventa universale. Si tramanda, passa di occhio in occhio, di parola in parola, poi si tramuta in leggenda, statua, materia di studio, anniversario. Chissà se del Donbass Arena si faranno monumenti e poesie. Se lo meriterebbe. Non perché sia particolarmente bello. Era una costruzione efficiente, uno dei migliori stadi d’Europa, ma ecco, forse siamo tutti un po’ snob, e riteniamo di non poter dedicare la stessa enfasi lessicale a un anfiteatro romano e a un dannatissimo stadio, in cui giocava una squadra dal nome difficile: lo Shakthar. C’è una sorta di freddezza nelle cose di recente costruzione, forse perché non hanno ancora il pathos di quelle che cadono a pezzi. Gli edifici antichi sono sempre vicini a una morte che non arriva mai, hanno le crepe del tempo, mentre il Donbass Arena ha l’arroganza di un giovane arricchito. Era l’unica cosa internazionale, o come si dice, “cool”, di Donetsk. Una voluta d’acciaio nel grigiore post-sovietico della città, che ogni marzo si risveglia dal bianco della neve e a poco a poco si ritrova chiazzata di rose e di foglie. Era la nuova miniera di soldi, contrapposta a quelle sotterranee degli shakhtery (minatori) dalla pelle di carbone e gli occhi di vetro. La moderna cattedrale delle opportunità, dove tutti volevano lavorare e pregavano al Dio denaro. Voglio ricordarlo quando era “vivo”, quando la notte si vestiva di blu cobalto, quando i (pochi) turisti si facevano fotografare sotto il suo pallone da calcio in pietra. Quando la birreria al pian terreno, il Fan Cafè, era piena di tacchi a spillo, scarpe da tennis, di un vociare in russo, ucraino, inglese, italiano, francese. Quando si percorrevano di continuo i corridoi arancioni dei suoi uffici, e nello spiazzo di fronte al suo ingresso si fermavano le Lada e le Zhiguli dei tassisti “Mosaika”, o le limousine- a vetri oscurati, se degli oligarchi, adorne di fiori, se delle spose. Un tempo è stato così, e può darsi che non lo sarà mai più. Dicono che in ogni istante nessuno è più ciò che era nell’istante precedente. Ben diverso è quando qualcuno muore. Si crea una frattura irreversibile. Ieri, in un certo senso, è “morto” il Donbass Arena. Colpito. Non affondato, ma qualcosa dentro di lui si è spento per sempre. Lo so, sono tragica. Ha preso qualche botta, null’altro. Ma è soggetto ad entropia: è esploso, e non si riesce più a ricacciarvi dentro tutti quei detriti, quelle lacrime, quell’intonaco, quello stupore dei grandi show che ha visto scorrere. Lo stadio è stato. Ci piace pensare che sia entrato in un letargo cupo, e che le sue tribune, ora abbandonate, in futuro tornino ad essere assediate da mille fondoschiena e applausi.

Ho voluto dedicargli alcune parole, perché credo sia un’idiozia e una scappatoia reagire di fronte alle cose orribili con un “non ci sono parole”. Per una guerra inaspettata e amara, di cui il Donbass ferito è il simbolo, le parole ci sono, eccome. Sono solo parole, eppure rappresentano la forma tramite cui la vita può essere condivisa. Ci sono molte parole da dedicare a qualcosa che cessa di esistere (temporaneamente?), ma che ha avuto un ruolo. Il Donbass Arena ne ha avuto uno, e non indifferente: ha contenuto una folla eterogenea, unita in un ovale che pare un ottovolante, e in quei momenti c’era una connessione tra tutto e tutti. Il Donbass Arena ha danzato, e come ha danzato! Ha vorticato, ha inghiottito urla, inni, canti, battiti di mani, piedi e cuori, partite, discorsi solenni. Alla fine ha turbinato, è esploso in mille fuochi d’artificio, si sono bruciati con quegli scoppi anche i sogni avverati di migliaia di ragazzini, che hanno ballato le coreografie di massa, creando forme armoniose con i loro corpi, inseguendo l’orgoglio di comparire in televisione, d’esser guardati da un bel pezzo di mondo e dar vita a qualcosa di meraviglioso, che in quel momento porta lontano e fa dimenticare il peso di ogni cosa- perché questa è la magia di un grande spettacolo: sospendere. Hanno calcato il suo suolo presidenti, veterani di guerra, famiglie, calciatori, cantanti, star, bambini. Quello stadio si è acceso e ha visto vorticare i desideri di milioni di persone. Desideri oscillanti, come la sfera luminosa che brillava in alto, il calciatore gigante gonfio d’aria che fluttuava, goffo e leggero. Mentre lo stadio danzava un valzer che non sapevamo essere fra i suoi ultimi, noi c’eravamo. Non ci importava niente dei nostri capelli scompigliati, dei nasi o delle cosce grosse, del padrone o del credo da cui ci facciamo fregare, delle tasse da pagare, di chi si ammala ed è ancora così ingenuo, di chi ci ha lasciato e chi ci lascerà, di chi ci manca più della nostra felicità, di dove desideriamo essere sepolti. Ce ne fregavamo di tutto, rapiti dalla magia delle luci e della musica, dall’incanto della bellezza. È in quell’attimo che vorrei cristallizzare il Donbass, nell’attimo in cui era acceso di festa e di grazia. Perché c’è chi non si accende mai. C’è chi non vedrà mai brillare nessun sogno. Lui ne ha visti parecchi, di sogni. E non è poco.

Arrivederci, Donbass Arena. Speriamo, a presto.

 don colpito 2

Don colpitodon fiore