Надрыв, nadryv: termine intraducibile della lingua russa

La ricchezza lessicale della lingua russa riflette quella culturale, psicologica, mentale. La profondità del popolo russo può essere colta in molti modi; un’interessante prospettiva è quella di partire delle parole russe intraducibili in altre lingue. Possono dare l’idea di come il lessico rifletta (e spesso influenzi) la mentalità di un gruppo di persone. Una di queste parole mi ha talmente colpito per la sua ricchezza, da avermi convinto che meritasse un articolo a sé.

Sto parlando di надрыв (nadryv): questo termine è tra i più curiosi e complessi della lingua russa, per la sua ricchezza semantica. Ampiamente usato da Dostoevskij in un’accezione innovativa che vedremo, letteralmente significa “rottura, lacerazione, strappo”, ma con l’accezione di qualcosa che conduce all’inabilità, l’inutilità delle azioni. A livello psicologico, sta a significare una sensazione di angoscia, di demolizione psichica cui si accompagna tensione, causata dall’insofferenza verso le norme sociali di comportamento, dal costo psicologico della costruzione e del mantenimento della soggettività. Questa parola cambia il suo significato anche in base al codice linguistico, al contesto in cui viene utilizzata, indicando un ventaglio di condizioni fisiche e psichiche. Ad esempio, in ambito medico, indica una forte tosse non ordinaria, con tentativi vigorosi di tossire, che provocano dolore al petto e a tutto il corpo in generale. A livello sociale, significa lavorare con un carico, svolgere un lavoro pesante, come il sollevamento di oggetti nell’edilizia. A livello psico-fisiologico, indica uno stato di particolare stanchezza, quando non è più possibile fare un ultimo sforzo per ripristinare la giusta energia richiesta per poter svolgere un compito. Così, in senso lato, il nadryv è la condizione in cui l’essere umano tenta di espellere, dal profondo di se stesso (come con i colpi di tosse), tutto ciò che gli impedisce di vivere e respirare: è una “tosse” che priva l’uomo di forze, ma che al contempo non può essere trattenuta. Va inoltre notato che la sensazione di nadryv non indica un’emozione percepita dal soggetto come totalmente propria: include sempre una manipolazione dei sentimenti, una falsità emotiva. Per citare Dostoevskij ne I fratelli Karamazov (dove, peraltro, un intero capitolo è chiamato Nadryvy): “Da qualche parte ho letto di Giovanni l’Elemosiniere (un santo), di quando gli si presentò un passante affamato e infreddolito e lo implorò di riscaldarlo, si sdraiò nel suo giaciglio, lo abbracciò e cominciò a respirargli affianco, con un fiato tanto purulento e maleodorante da tradire qualche terribile malattia della bocca. Sono certo che l’abbia fatto con nadryv (l’angoscia, il fardello, il conflitto) della bugia, per quell’amore ordinato dal debito, per l’epitimia (isteria, angoscia) che si trascinava dietro. Per amare qualcuno, occorre che quest’ultimo si nasconda, non appena mostra il suo volto, l’amore decade.”

L’immagine evocata da Dostoevskij è forte ed è particolarmente sovversiva. La sfida che lancia è quella di “amare”, aiutare un bisognoso superando il naturale ribrezzo che suscita la sua condizione fisica, evidenziando come amare sia un imperativo morale, un debito, (un comandamento, per vederla in un’ottica cristiana) e come l’amore e l’empatia siano, in un certo senso, poco compatibile con la nuda verità e la natura umana, in quanto la realtà, spogliata di fronzoli, ipocrisie e abbellimenti, è quasi impossibile da amare. Qui la critica di Dostoevskij riporta alla riflessione culturale intorno all’epoca romana, in cui il conflitto tra amore e debito era pressoché insolubile. Lo scandalo di Dostoevskij consiste nella repressione di tale conflitto: l’amore seducente o proibito, “illegale”, si rifiuta di adempiere al debito interiore o esteriore. Dostoevskij, così facendo, cerca di superare gli imperativi culturali delle tappe dello sviluppo della cultura russa a lui precedenti. Nella letteratura russa, il nadryv cessa di essere legato esclusivamente alla propria condizione, cessa di essere una lamentela al riguardo, ed emergono “angosce, rotture” facenti parte di un preciso sistema di imperativi culturali. Paradossalmente, la condizione indesiderata inizia a divenire parte di un modello comportamentale, dividendo in tal modo il destino di molte parole che indicano una condizione sgradevole, ma che nel secolo d’oro della poesia russa sono divenuti i modelli comportamentali idealizzati del poeta (la pigrizia, la passione e molti altri). L’espressione francese fendre l’âme / le cœur, che significa dividere l’anima/il cuore, ha iniziato ad essere tradotta come «надрывать душу/сердце» (lacerare l’anima/il cuore). Da questa espressione francese ha iniziato a diffondersi l’idea che ciò che laceri l’anima sia come un suono o un rumore inquietante che agisce incessantemente, come il mal di testa. E il malessere che deriva da questa sensazione è dato soprattutto dal pensiero che tali suoni, tali gridi nell’anima, non siano affatto eccezionali, ma possano al contrario ripetersi nel corso del tempo, ritornare. Che, dunque, si debba affrontare più di una volta la morte o il dolore. Tale percezione, tale anticipazione di future ed ulteriori angosce paralizza il dolore, ma non l’empatia, che, al contrario, ha incoraggiato tutta quella sensibilità sociale sviluppata nell’epoca del XIX secolo. L’innovazione di Dostoevskij, dunque, è stata quella di aver criticato radicalmente tale empatia, lasciando un’eredità alle future correnti religiose di pensiero russe dell’epoca a lui successiva. Nella cultura russa del XX secolo, nadryv mantiene l’accezione di inautenticità, ma ritorna all’esperienza originaria che lo lega ad una malattia o a un lavoro sgradevole. L’angoscia, a quei tempi, era l’unico modo per comprendere il lavoro ordinario, indipendentemente dall’associazione con il destino della Russia o quello personale: l’angoscia è un promemoria aperto sul destino, che può colpire chiunque e dunque risulta sgradevole indipendentemente da chi verrà colpito da un’infausta sorte.

Così, l’accezione iniziale di nadryv come sensazione spiacevole causata dal lavoro di routine si associa a quella dostoevskiana della ripetizione fatale di una situazione di conflitto nelle successive generazioni. L’angoscia diviene dunque il leitmotiv che descrive la vita degli oppressi, la cui tragica fatalità si ripercuote sui propri figli (a differenza del dionisiaco mutuato da Nietsche, altrettanto alla moda in Russia ai tempi, ma che differisce dall’angoscia del nadryv perché è una sovversione eccezionale delle regole, dunque incompatibile con la routine legata all’idea di nadryv). Tutto ciò ha portato all’accezione contemporanea del termine, per cui nadryv oggi indica un forte tormento dell’anima- ad esempio, in ambito artistico, suonare il pianoforte con nadryv significa suonarlo in maniera emotivamente forte, enfatizzando le emozioni. Tuttavia, si mantiene ancora, nell’accezione contemporanea del termine, l’idea di una sovratensione delle forze creative che porta al rapido esaurimento, al declino, tornando all’accezione medica del termine come “tracollo” fisico-emotivo.

A livello filosofico, si può dunque partire dall’idea del secolo scorso di nadryv non come protesta contro la routine, ma come accettazione del destino comune, proprio e delle future generazioni, per arrivare ad un’accezione di angoscia legata a quella della propria missione nel mondo, della missione delle generazioni future, della riproduzione sessuale. Tesi interessante è quella per cui l’origine dell’angoscia dell’animo umano risieda nella lacerazione prodotta dalla differenziazione di genere sessuale, che provoca incompletezza, solitudine, frustrazione (e qui ci si potrebbe allacciare al celeberrimo mito platonico dell’androgino, narrato nel Simposio). Il conflitto interiore dell’essere umano è dunque legato all’irraggiungibilità degli ideali data dalla sua condizione di parzialità, di rottura esteriore ed interiore. Cruciale il concetto di errore, cui può condurre l’angoscia (passi falsi, false valutazioni), laddove l’errore è l’incapacità di distinguere la parte dal tutto, ed è un errore non malizioso, ma fatale, perché causato inesorabilmente dal nadryv.

“Laddove c’è una parte, c’è il nadryv (la rottura). Ed esso ci riporta dalla parte al suo tutto, che non c’è più, ma del quale la rottura si configura come l’unico segno evidente.”(V.V. Bybkhin, “Conosci te stesso”).

La rottura, dunque, indica non la riproducibile sorte della parte, ma l’inimitabile traccia del tutto.

Fonte: il bellissimo articolo (in russo) di Aleksandr Markov, disponibile a questo link http://gefter.ru/archive/18855, che ho tradotto in parte e a cui mi sono ispirata per questo articolo.